Home EDITORIALI Il premier polacco Tusk: “Non siamo pronti a una guerra in Europa”

Il premier polacco Tusk: “Non siamo pronti a una guerra in Europa”

La Polonia è stata la miccia che ha fatto scoppiare la Seconda guerra mondiale, primo Paese a essere attaccato e invaso dalle truppe di Hitler, il primo settembre 1939. Una memoria storica di pogrom e persecuzioni ancora vivissima in quella Nazione, come dimostra il pensiero e la visione del conflitto in Ucraina del premier Donald Tusk.

La Polonia è stata la miccia che ha fatto scoppiare la Seconda guerra mondiale, primo Paese a essere attaccato e invaso dalle truppe di Hitler, il primo settembre 1939. Una memoria storica di pogrom e persecuzioni ancora vivissima in quella Nazione, come dimostra il pensiero e la visione del conflitto in Ucraina del premier Donald Tusk. “La guerra in Europa è un pericolo reale”, avverte il premier. “Ma non siamo ancora pronti”. Tusk tocca molte questioni centrali nel quadro della crisi in atto in un’intervista a La Repubblica, che riportiamo integralmente:

La guerra in Europa, per la prima volta dal 1945, è un fatto «reale»: stiamo scivolando in una fase «prebellica» con la Russia. Donald Tusk ne parla apertamente alla luce delle minacce sempre più fosche che arrivano da Mosca.

E il premier polacco avverte che l’Europa non è ancora pronta per affrontare un conflitto, e che si deve invece preparare a quest’eventualità rafforzando enormemente la sua difesa, anche discutendo di Eurobond o fondi Bei.

In quest’intervista con Repubblica e i giornali del consorzio Lena – la prima con la stampa internazionale da quando è stato rieletto primo Ministro – Tusk parla dei suoi rapporti con Giorgia Meloni , del futuro dei Popolari europei, del Triangolo di Weimar e spiega perché il Patto europeo per i migranti “non basta” e la crisi degli agricoltori ucraini e polacchi lo spinga a dire che bisogna ripensare il libero scambio con Kiev.

Che sul fronte militare, però, va aiutata fino in fondo: “Se perde, nessuno potrà più sentirsi al sicuro in Europa. È una domanda che ci si pone ovunque. Tra i leader politici o quando sono nella mia città natale di Sopot e sono i miei nipoti a chiedermi se c’è il rischio di una guerra. Non voglio spaventare nessuno, ma la guerra non è più un concetto del passato. È reale, anzi è già iniziata più di due anni fa. La cosa più preoccupante è che ogni scenario è possibile, letteralmente. È la prima volta dal 1945 che ci troviamo in una situazione del genere. Quando ero bambino c’era una fotografia appesa a una parete della mia casa di famiglia. Mostrava una spiaggia di Sopot piena di gente che rideva. Era stata scattata il 31 agosto 1939. Una dozzina di ore dopo, a cinque chilometri di distanza, iniziava la Seconda guerra mondiale. So che sembra devastante, soprattutto per i più giovani, ma dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. È l’era prebellica. Non sto esagerando. Sta diventando ogni giorno più evidente”.

La scorsa settimana lo spazio aereo polacco è stato nuovamente violato da un missile russo…

“Sì, un ennesimo incidente preoccupante. Quando Leopoli o altre città dell’Ucraina occidentale vengono attaccate, il suono delle esplosioni si sente anche nella nostra zona di confine. All’ultimo Consiglio europeo ho avuto un’interessante discussione con il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez. Ci ha chiesto di smettere di usare la parola ‘guerra’ nelle dichiarazioni. Ha sostenuto che la gente non vuole sentirsi minacciata, che in Spagna suona astratto. Ho risposto che nella mia parte d’Europa la guerra non è più un’astrazione e che il nostro dovere non è discutere, ma agire e prepararci a difenderci”.

“Dobbiamo essere pronti. L’Europa ha ancora molta strada da fare. Per fortuna c’è una vera e propria rivoluzione nella mentalità europea. Quando sono stato primo ministro per la prima volta (2007-2011), nessuno, tranne gli Stati baltici, prestava attenzione ai miei moniti sul fatto che la Russia potesse essere una minaccia. Una possibilità che è sempre stata scartata. Nel 2008-2009 si discuteva ancora di una comunità di sicurezza europea da Lisbona a Vladivostok. Quando ho detto che la Russia era un problema per l’Europa, non un partner, la gente scrollava le spalle: ma certo, è polacco, è russofobo. Ora non provo una particolare soddisfazione nell’osservare i cambiamenti che stanno avvenendo in tutte le capitali europee. Il più importante è che nessuno mette più in discussione la necessità di una difesa comune. Guardate la Germania: lì c’è stata un’enorme inversione di tendenza. Oggi i principali partiti, la Cdu e l’Spd, sono in competizione tra loro su chi sia un sostenitore più convinto dell’Ucraina. E guardate alla diatriba che il presidente francese Emmanuel Macron sta avendo con i populisti e la sua determinazione a diventare uno dei leader del fronte anti-Putin in Europa. E poi c’è la metamorfosi in Scandinavia. Quando ero giovane, la Svezia e la Finlandia erano considerate simili nel loro pacifismo e nella neutralità. Oggi sono Paesi membri della Nato. E a volte i miei colleghi a Stoccolma o Helsinki hanno una posizione più dura sulle questioni di sicurezza rispetto ai vecchi membri del Patto. E non fanno retorica: agiscono”.

L’Ucraina, arrivata al suo terzo anno di conflitto, sta attraversando un periodo difficile. Cosa accadrebbe se perdesse la guerra?

“Abbandoniamo i ‘se’. Il nostro obiettivo principale deve essere quello di proteggere l’Ucraina dall’invasione russa e di tutelare la sua indipendenza e integrità. Il destino dell’Ucraina è soprattutto nelle nostre mani. Non mi riferisco alla sola Polonia o all’Ue, ma all’intero Occidente. Sta a noi fare in modo che l’Ucraina possa evitare gli scenari peggiori. La sua situazione oggi è molto più difficile di quella di un anno fa, ma anche molto migliore di quella dell’inizio della guerra, quando i soldati di Putin erano alla periferia di Kiev. Dovremo considerare la guerra in Ucraina in una prospettiva di lungo termine. Questo comporterà responsabilità sempre nuove per i Paesi europei. È nel nostro interesse mantenere l’Ucraina nelle migliori condizioni possibili. In Polonia tutti ne sono consapevoli, non se ne discute neanche. E non è un fatto scontato: abbiamo avuto un passato molto difficile con l’Ucraina. Quello che è successo ora tra i nostri popoli – questa indiscussa solidarietà – è un miracolo. Voglio preservare questo sentimento, anche se non è semplice. I momenti più tristi della mia carriera politica sono quelli in cui devo essere duro e severo con i nostri amici ucraini. Probabilmente sono il politico più filo-ucraino d’Europa, ma mi devo prendere cura dei miei cittadini. Come premier polacco devo proteggere gli interessi fondamentali della Polonia. In questo caso, non parliamo di un gruppo sociale piccolo, ma di mezzo milione di agricoltori e dei loro familiari. Se a questo aggiungiamo le compagnie di autotrasporto, la questione riguarda gli interessi di milioni di cittadini polacchi che sono minacciati dalla liberalizzazione del commercio tra Ucraina e Ue. La ricerca di una soluzione a questo problema sta occupando gran parte del mio tempo. I polacchi stanno pagando un prezzo elevato. Nessuno è all’altezza della Polonia quando si tratta di sostenere l’Ucraina. Se si confrontano le statistiche delle munizioni inviate all’Ucraina, dell’equipaggiamento militare – a volte ci si dimentica che nelle prime settimane di guerra abbiamo donato 300 carri armati: praticamente tutto ciò che avevamo. Se a questo aggiungiamo i danni da usura alle nostre infrastrutture, alle autostrade, alle ferrovie, all’aeroporto di Rzeszów, nonché il costo delle prestazioni sociali per gli ucraini, che sono trattati alla stregua dei nostri cittadini, e le perdite subite dagli agricoltori o dagli autotrasportatori, stiamo parlando di un costo totale di decine di miliardi. Sto facendo questi calcoli per dimostrare che non possiamo davvero sostenere i costi del libero scambio con l’Ucraina”.

Come si risolve questo problema?

“Vogliamo aiutare l’Ucraina il più possibile. Ma all’ultimo Consiglio europeo ho sostenuto che l’idea del libero scambio con l’Ucraina deve essere ripensata. Credo di aver convinto Francia, Italia e Austria. Voglio un accordo equo con l’Ucraina su questo punto, voglio trovare un minimo denominatore comune che tenga conto degli interessi dell’Ucraina, della Polonia e dell’Ue”.

Lei è stato invitato alla Casa Bianca nelle scorse settimane, poi è volato a Berlino per incontrare il cancelliere Olaf Scholz e il presidente Macron. Che messaggio ha portato dagli Stati Uniti?

“Il messaggio è che, a prescindere da chi vinca le elezioni americane, se Joe Biden o Donald Trump, è l’Europa che deve fare di più sulla difesa. Non per raggiungere l’autonomia militare nei confronti degli Stati Uniti o per creare strutture parallele alla Nato, ma per sfruttare meglio il nostro potenziale, le nostre capacità e la nostra forza. Saremo un partner più attraente per gli Stati Uniti se saremo più autosufficienti nella difesa. Francamente, anche se Trump dovesse vincere, l’Europa dovrà comunque essere più attiva nel promuovere i legami transatlantici, perché sono l’unico modo responsabile per difendersi dalla Russia e da altre autocrazie. C’è un pensiero diffuso e sbagliato secondo il quale l’Europa, per essere un fedele alleato degli Stati Uniti, dovrebbe rinunciare a qualsiasi ambizione militare. Un altro pensiero sbagliato suggerisce che, a causa delle politiche di Trump o del sentimento antiamericano in alcuni Paesi europei, dovremmo allentare o addirittura rompere la nostra alleanza militare con gli Stati Uniti. A mio avviso, abbiamo bisogno di un’alleanza forte con l’America, ma allo stesso tempo dobbiamo essere indipendenti e autosufficienti nella difesa. Il nostro compito è quello di rafforzare i legami transatlantici, indipendentemente da quale sia il presidente americano”.

Lei dice che l’Europa dovrebbe spendere di più per la difesa. Ma come si può finanziare questo sforzo comune?

“Non c’è motivo per cui gli europei non debbano rispettare un principio fondamentale e spendere almeno il 2% del Pil per la difesa. Il punto di partenza è questo. Posso capire che non tutti i Paesi vogliano adottare il modello polacco. Noi spendiamo il 4%, ma è anche vero che la nostra situazione di sicurezza è più complessa di quella della Spagna o dell’Italia. Il 2% del Pil, però, deve essere considerato un must. Non capisco chi lo voglia mettere in discussione. Possiamo discutere di Eurobond per la difesa e di un maggiore coinvolgimento della Banca europea per gli investimenti (Bei). Ma dobbiamo spendere il più possibile per acquistare attrezzature e munizioni per l’Ucraina, perché stiamo vivendo il momento più critico dalla fine della Seconda guerra mondiale. I prossimi due anni saranno decisivi. Se non riusciremo a sostenere l’Ucraina con attrezzature e munizioni sufficienti, se l’Ucraina perderà, nessuno in Europa potrà sentirsi al sicuro. Dobbiamo anche cambiare il modo in cui pensiamo a noi stessi. Viviamo nella parte più ricca del mondo, siamo all’avanguardia quando si tratta di tecnologia o di standard di vita. Non si può seriamente paragonare la Russia all’Ue. Dobbiamo iniziare a sfruttare questo vantaggio. E dobbiamo parlare di nuovi investimenti per acquistare tutto ciò che è disponibile sul mercato da inviare all’Ucraina in difficoltà”.

Si riferisce al piano ceco per acquistare munizioni per l’Ucraina anche al di fuori dell’Europa?

“Ai soldati ucraini non importa se i missili che stanno sparando provengano dall’Africa o dall’Asia. Ho dovuto convincere i nostri partner, a partire dalla Francia, a non bloccare l’accordo per l’acquisto di attrezzature fuori dall’Europa. L’80% dei 100 miliardi di euro spesi dall’UE in attrezzature e munizioni è andato a fornitori extraeuropei. E 60 miliardi agli Stati Uniti. Ma per fortuna il presidente Macron ha cambiato la sua posizione e possiamo spendere anche fuori dall’Europa. È stata una svolta importante. Ora attendiamo una decisione altrettanto dirompente da parte dello speaker repubblicano della Camera Mike Johnson. Ci sono segnali che rendono ottimisti sulla possibilità di sbloccare gli aiuti statunitensi da 60 miliardi di dollari”.

Non teme che Putin usi l’attacco alla Crocus City Hall vicino a Mosca, dove sono state uccise più di cento persone, come pretesto per inasprire la guerra in Ucraina?

“La storia ci insegna che Putin usa queste tragedie per i suoi scopi. Ricordiamo cosa è successo dopo l’attacco al teatro Dubrovka o alla scuola di Beslan. Putin ha già iniziato a incolpare l’Ucraina di aver organizzato l’attentato, senza fornire alcuna prova a riguardo. Evidentemente ha bisogno di giustificare attacchi sempre più violenti contro obiettivi civili in Ucraina. Lunedì scorso la Russia ha colpito per la prima volta Kiev alla luce del giorno con missili ipersonici”.

Torniamo all’Unione europea. Che ruolo ha attualmente il Triangolo di Weimar polacco-tedesco-francese per la Ue? E la Polonia per il Triangolo?

“La cosa più importante per la sicurezza dell’Europa è l’intesa e la cooperazione tra Francia, Germania e Polonia sulla difesa. La Polonia, grazie alla sua posizione geografica e al suo attivismo nell’area, può svolgere un ruolo molto costruttivo. Nell’Ue esistono vari formati. Quando sono diventato primo ministro, la mia prima iniziativa è stata quella di rinnovare le relazioni con i Paesi nordici, in particolare con la Svezia e la Finlandia quando hanno aderito alla Nato. In termini di solidarietà sulle questioni di sicurezza, è un formato estremamente promettente. E ora sto cercando di migliorare le relazioni con i colleghi del gruppo di Visegrad. E anche con Orban. Penso che sarò in grado di trovare argomenti per convincerlo a cooperare di più nel sostegno all’Ucraina. E sto provando a fare la stessa cosa con la Slovacchia. Il premier Robert Fico è un politico molto pragmatico. E dopo il cambio di governo la Polonia è più attrezzata a svolgere un ruolo positivo nella regione. Inoltre, essendo il Paese più grande, può contribuire a migliorare la cooperazione tra Berlino e Parigi e la regione nel suo complesso. Se il Triangolo di Weimar funziona, potremo formulare delle proposte comuni sulla difesa che gli altri Paesi accoglieranno. Dopo tutto, il Triangolo di Weimar rappresenta più del 40% della popolazione dell’Ue”.

Però dopo il suo recente incontro con Macron e Scholz in Europa si sono levate voci irritate. La premier italiana Georgia Meloni è contrariata per non essere stata invitata, nonostante il suo Paese presieda il G7.

“Voglio lavorare a stretto contatto con la premier Meloni. Ha già dimostrato che, quando si tratta di geopolitica e di interessi comuni, è più europeista e responsabile di quanto ci si aspettasse. La rispetto per questo, ma mi rendo anche conto di quanto debba essere difficile per lei la gestione interna. Farò tutto il necessario per sviluppare le relazioni italo-polacche e per fare dell’Italia un attore importante in Europa. Sto preparando una visita a Roma, cercherò di fugare personalmente tutti i suoi dubbi sul Triangolo di Weimar”.

Sul fronte interno, Meloni mostra un volto più autoritario. Si scaglia regolarmente contro giornalisti, editori e magistrati, riprendendo spunti a lei noti, che somigliano alle strategie dei governi polacchi del PiS. Eppure a Bruxelles si parla sempre più spesso di una collaborazione tra il Partito popolare europeo e Meloni, addirittura di una possibile adesione di Fdi al Ppe. È realistico?

“Conosco Giorgia Meloni da troppo poco tempo per poter dare un giudizio. Ma da quello che sento dire dai suoi omologhi, non solo nel Ppe, anche dai socialisti o dai liberali, è che il ruolo positivo di Meloni a Bruxelles, nel Consiglio europeo, sia ampiamente apprezzato. Sono rimasto colpito quando l’ho sentita parlare pubblicamente a sostegno dell’Ucraina. Ha difeso con passione le scelte filoucraine nel Parlamento italiano. A livello internazionale, le sento fare solo dichiarazioni europeiste. Ma Meloni è certamente consapevole che avrei difficoltà ad accettare le sue opinioni e i suoi metodi nella politica interna”.

Dopo le elezioni del Parlamento europeo ci sarà di nuovo una coalizione tra il Ppe, i socialdemocratici e i liberali, oppure i popolari si coalizzeranno con l’estrema destra, come sta facendo il leader dei cristiano-democratici spagnoli Alberto Núñez Feijóo?

“Ho una posizione chiara sui partiti di estrema destra in Polonia. Ma ogni leader democratico conosce meglio la situazione del proprio Paese e decide autonomamente quale strategia adottare. L’estrema destra fa parte di coalizioni di governo in Svezia, Finlandia, in diverse regioni spagnole, e resta da vedere se questo non accadrà anche dopo le elezioni in Portogallo. Se vogliamo cogliere un aspetto positivo, noto che alcuni partiti di estrema destra sono cambiati, grazie a questo”.

Quindi alleanze con l’estrema destra sono accettabili?

“Sarebbe meglio se i partiti di estrema destra venissero sconfitti alle elezioni, così non ci si dovrebbe porre queste domande. Per essere efficaci in questo senso non si può perdere di vista ciò che accade nella testa delle persone. Credo che la gente comune – non i politici, non gli attivisti – sia diventata più scettica e chieda un approccio più realistico. La guerra, ma anche la pandemia che l’ha preceduta, o la crisi dei migranti, ci hanno dimostrato che dobbiamo essere più pragmatici e sensibili alle paure dei nostri cittadini. Questo approccio è ormai tangibile in ogni capitale dell’Ue”.

Significa che vorrete rinegoziare il Patto sulla migrazione adottato dall’Ue?

“Purtroppo il Patto non è una buona risposta ai problemi che dobbiamo affrontare in Polonia. Nella nostra parte d’Europa, l’immigrazione ha un volto diverso da quella cui si assiste del Mediterraneo. Qui non è un fenomeno spontaneo. Centinaia di migliaia di donne e uomini ucraini fuggono spontaneamente dalla guerra in Polonia, e noi li abbiamo accolti senza alcuna restrizione fin dall’inizio. Ma il problema è che oggi, ancora una volta, assistiamo a un’operazione orchestrata dal regime di Lukashenko al confine con la Bielorussia. Non giustificherò alcuni dei metodi usati dalle guardie di frontiera polacche, ma non possiamo essere inermi di fronte a Putin e Lukashenko, che non solo organizzano questi flussi, ma li usano come strumento di pressione. È compito dello Stato proteggere efficacemente i propri confini e il proprio territorio. Ma diventa un dovere alla luce della guerra ibrida russa. L’Unione europea nel suo complesso è un’organizzazione potente, e deve essere mentalmente pronta a combattere per la sicurezza dei nostri confini e del nostro territorio. Se continuiamo a essere ingenui, ad accoglierli senza riserve, perderemo il sostegno dei cittadini. Perderemo nei confronti di Stati e di potenze che sono pronte a combattere in modo aggressivo per imporre i loro interessi. Dobbiamo essere certi che, quando sarà necessario, non esiteremo a fermare questi Paesi”.

Come leader dell’opposizione polacca, lei ha vinto una battaglia impari con il PiS. Cosa può imparare l’Europa dalla vittoria polacca sul populismo?

“Ci vuole determinazione e fiducia nella vittoria, questo è fondamentale. Kaczynski e i suoi tirapiedi erano molto più deboli di quanto non si pensasse. Il problema era convincere le persone che i concetti di ‘Stato di diritto’ o di ‘libertà’ non sono astrazioni, ma questioni che riguardano la vita di tutti i giorni. E combattere per essi può far vincere. Ho lottato per la libertà quando ero un ventenne e purtroppo abbiamo imparato che in Polonia, negli ultimi tempi, è stata necessaria una determinazione simile a quella che abbiamo dimostrato nella lotta contro il comunismo opprimente. L’aspetto più importante è che non bisogna mai essere ambigui. Bisogna avere una comunicazione molto chiara con gli elettori. Se qualcuno è un ladro bisogna dire che è un ladro, e se c’è corruzione e violenza bisogna parlare di corruzione e violenza. Inoltre, per vincere contro l’autoritarismo e i populisti, a volte bisogna essere in grado di usare i loro stessi argomenti. A volte Kaczynski o Orbán hanno ragione nelle loro diagnosi, ma la medicina che propongono è velenosa e sbagliata. La risposta non è negare le paure delle persone e le minacce che vedono con i loro occhi, ma trovare e proporre una soluzione che non sia antidemocratica e disumana. Ad esempio, durante la prima crisi migratoria del 2015. I cittadini volevano sentire dai governanti quale fosse il loro piano per proteggere i confini. Non erano diventate improvvisamente xenofobe, ma avevano perso il senso di sicurezza, di stabilità, di un futuro prevedibile”.

È per questo che il suo governo sta continuando a respingere profughi al confine con la Bielorussia?

“È una vicenda completamente diversa. Il diritto internazionale deve essere corretto su questo punto, anche se so che oggi è quasi impossibile. Ma le leggi attuali sono nate in tempi completamente diversi. E non parlo neanche del fatto che le Nazioni Unite stimino che 100 milioni di persone provenienti dall’Asia e dall’Africa siano pronte a emigrare in Europa, parlo del fatto che i regimi autoritari utilizzino strumentalmente queste persone già fragili come arma di una guerra ibrida”.

La Convenzione di Ginevra sui rifugiati obbliga gli Stati a esaminare ogni richiesta di asilo.

“Nessuno può esaminare ogni persona se la Russia e la Bielorussia spingono migliaia di persone alla volta al confine. Lo fanno deliberatamente e freddamente. Se noi riusciamo a gestirne mille, loro ne mandano diecimila e così via, il loro obiettivo è destabilizzare. Trattano le persone come uno strumento, è oggettivo. Vogliono che arriviamo a un punto in cui dobbiamo negare i nostri diritti e valori. Questo è il problema nella nostra parte d’Europa. Dobbiamo agire nel modo più umano possibile. I respingimenti come metodo sono moralmente inaccettabili, dobbiamo trovare una soluzione migliore. L’alternativa non può essere l’impotenza”.

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