Home EDITORIALI C’è amore anche dietro alle sbarre. La sentenza della Cassazione

C’è amore anche dietro alle sbarre. La sentenza della Cassazione

Scriveva nel 1764 l'illuminista Cesare Beccaria, nel suo trattato Dei delitti e delle pene: la reclusione sia da essere rieducativa e non repressiva, per favorire una sicurezza sociale e un’integrazione sociale del criminale pentito. Con una sentenza che sembra recepire questo principio, la Corte di Cassazione cambia le regole del gioco e restituisce ai detenuti maggiori diritti di vivere la propria sfera affettiva in carcere.

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Scriveva nel 1764 l’illuminista Cesare Beccaria, nel suo trattato Dei delitti e delle pene: la reclusione sia da essere rieducativa e non repressiva, per favorire una sicurezza sociale e un’integrazione sociale del criminale pentito. Con una sentenza che sembra recepire questo principio, la Corte di Cassazione cambia le regole del gioco. Restituisce così ai detenuti maggiori diritti di vivere la propria sfera affettiva in carcere.

Un precedente

Dodici anni fa vi fu il caso dell’ordine di remissione n. 129/2012, con cui il Tribunale di sorveglianza di Firenze chiese al Giudice delle leggi di dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 18, comma 2, o.p., dove si impone il controllo a vista del personale di custodia sui colloqui, negando il diritto a una sessualità intramuraria. Finora, ad aggravare le restrizioni esisteva eccezionalmente un possibilità, ma solo per chi ha un coniuge o una convivenza stabile.

Un passo avanti che parte da Terni

La sentenza della Consulta ricostruisce anche il caso da cui è partita la riflessione: “Il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 O.P. nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia, per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, commi 1 e 4, 27, comma 3, 29, 30, 32 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in rapporto agli art. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’ordinanza è scaturita dal reclamo di un detenuto nel carcere di Terni, nel quale si lamentava delle modalità con le quali l’istituto penitenziario gli consente di svolgere i previsti colloqui visivi con i familiari, tra i quali la figlia minore e la compagna. Nel reclamo-istanza si evidenziavano le conseguenze negative che l’assenza di intimità con la compagna sta avendo sul mantenimento del suo rapporto di coppia”.

La decisione

La Corte Costituzionale, analizzando la questione di legittimità che le era stata sottoposta, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. Nel suo comunicato, la Consulta specifica: “L’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. E a proposito del Beccaria, i magistrati hanno sottolineato l’inquadramento di questa sentenza nei principi ispiratori della “finalità rieducativa della pena”.

I mafiosi? In bianco

I più efferati e spietati boss di Cosa Nostra, cui spesso viene comminato il carcere duro, dovranno invece volenti o nolenti restare fedeli al voto di castità. La sentenza della Corte Costituzionale non riguarda i galeotti in gattabuia secondo il regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziaria, né i detenuti sottoposti alla sorveglianza particolare di cui all’art. 14-bis della stessa legge.

Ci resta un dubbio che speriamo insigni giuristi snoderanno: se un femminicida alla Turetta non rientrasse nel regime detentivo speciale, che cosa accadrebbe?



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