Il corteo del passato che non passa
Più di mille persone si sono radunate a Predappio per commemorare la Marcia su Roma. Mille volti, mille passi, e un gesto – il braccio teso – che torna a tagliare l’aria davanti alla cripta di Benito Mussolini. Un gesto che credevamo sepolto dalla storia e che invece, anno dopo anno, riemerge come una ferita mai chiusa.
Predappio, paese simbolo della memoria fascista, si trasforma così – ancora una volta – in un palcoscenico dove la nostalgia si confonde con il revisionismo. Non una semplice commemorazione, ma una rievocazione che risuona come un messaggio politico: il passato non è finito, se c’è chi lo riveste di orgoglio.
Tra folklore e pericolo
C’è chi minimizza, parlando di “folklore”, di “memoria storica”, di “tradizione”. Ma il folklore non marcia con camicie nere, né saluta con il braccio alzato.
Questi raduni non sono solo nostalgie da museo: sono segnali. Piccoli, ma ripetuti, normalizzano il linguaggio e i simboli di un’epoca che dovrebbe restare confinata ai libri di storia, non ai cortei di piazza.
La presenza di centinaia di persone, molte delle quali giovani, mostra un’altra verità inquietante: il fascismo, in Italia, non è più solo un capitolo chiuso. È un racconto che qualcuno sta cercando di riscrivere, con nuovi protagonisti e vecchie giustificazioni.
La memoria corta di un Paese lungo
L’Italia, a differenza di altri Paesi europei, non ha mai davvero fatto i conti con la propria storia. Nessuna Norimberga, nessun processo collettivo, nessuna condanna morale condivisa.
Così oggi la memoria diventa selettiva: si ricordano le “bonifiche”, le “infrastrutture”, i “treni in orario”, dimenticando il prezzo pagato da milioni di persone.
E in questa amnesia collettiva, Predappio diventa lo specchio perfetto: un Paese che dimentica la dittatura e celebra l’uomo che l’ha costruita. Con tanto di souvenir, saluti romani e selfie davanti al mausoleo.
Una domanda scomoda
Non è solo una questione di legge o di ordine pubblico. È una questione di cultura, di educazione, di consapevolezza.
Perché se dopo un secolo c’è ancora chi trova motivo di orgoglio nel fascismo, allora non abbiamo imparato nulla.
E forse la domanda vera da porsi non è “come fermare questi raduni”, ma “come abbiamo permesso che tornassero”.


















