Sanità italiana, malata cronica
Non è più la malattia a decidere chi vive e chi muore, ma la capacità — o meglio, l’incapacità — del sistema sanitario di rispondere in tempo. Oggi, curarsi in Italia è diventato un privilegio. Chi può pagare si salva, chi non può aspetta. E spesso, chi aspetta, non arriva a domani.
Ospedali al collasso, pronto soccorso trasformati in reparti permanenti di emergenza, personale ridotto all’osso. Non è più un’eccezione: è la regola di un Paese che ha smesso di garantire il diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione.
Muoiono d’attesa: i casi che denunciano un sistema al capolinea
Cristina Pagliarulo, 41 anni, è morta dopo quaranta ore di attesa al pronto soccorso del “Ruggi” di Salerno. L’autopsia parla chiaro: una morte “prevedibile e prevenibile”. Tradotto: poteva essere salvata, se solo qualcuno fosse intervenuto in tempo.
Serafino Congi, 48 anni, ha avuto un infarto a San Giovanni in Fiore, in provincia di Cosenza. In ospedale, quella notte, c’era un solo medico a coprire un turno che ne prevedeva sei. Nessuna ambulanza disponibile, nessun elisoccorso: ha atteso ore un mezzo da Cosenza. Quando è arrivato, era già troppo tardi.
Poi c’è Maria Cristina Gallo, 56 anni, che aveva denunciato pubblicamente i ritardi dell’Asp di Trapani. Il suo referto istologico è arrivato otto mesi dopo la biopsia. In otto mesi, il tumore è cresciuto, inarrestabile. È morta anche lei.
E infine la storia di M.E., una giovane madre romana. Le serve una risonanza cardiaca urgente. Nel pubblico, sei mesi di attesa. Nel privato accreditato, due giorni e 400 euro. Più della metà del suo stipendio da precaria. Ha scelto di pagare, come milioni di italiani costretti ogni giorno a scegliere tra salute e sopravvivenza economica.
Liste d’attesa, pronto soccorso e personale al limite
In media, in Italia, i tempi d’attesa per una visita specialistica nel pubblico superano ormai i 100 giorni, con picchi drammatici al Sud. Nei pronto soccorso, le barelle nei corridoi sono diventate la norma.
Nel frattempo, migliaia di medici fuggono dal sistema sanitario pubblico per stipendi più alti e condizioni meno disumane nel privato. Chi resta, lavora turni massacranti, con responsabilità enormi e strumenti sempre più scarsi.
Il paradosso: la sanità privata cresce sulle macerie del pubblico
Mentre gli ospedali pubblici collassano, il settore privato accreditato registra utili record. Più il sistema pubblico si indebolisce, più il privato incassa. È un circolo vizioso che trasforma la salute in mercato, la malattia in business e il cittadino in cliente.
Il principio costituzionale dell’universalità è diventato una formula vuota. Curarsi è un diritto solo sulla carta. Nella pratica, è un lusso per chi può permetterselo.
Un sistema che chiede aiuto, ma nessuno risponde
I governi si alternano, i ministri cambiano, ma le promesse restano promesse. Intanto, negli ospedali italiani, si continua a morire non per mancanza di cure, ma per assenza di sistema.
E allora la domanda non è più se la sanità pubblica stia morendo, ma quante vite perderemo ancora prima che qualcuno decida di salvarla davvero.


















