Il piano per la pace che scricchiola dopo dieci giorni
Sono passati dieci giorni da quando la passerella dei leader mondiali a Sharm el-Sheikh ha inaugurato la seconda fase del cosiddetto piano per la pace in Medio Oriente.
Venti articoli, firmati sotto l’egida di Donald Trump, che avrebbero dovuto aprire una nuova stagione di stabilità nella regione. Ma a Gaza, dove la pace dovrebbe tradursi in fatti, la realtà è un’altra: la tregua non tiene, e la Striscia continua a bruciare.
Nuovi bombardamenti e tregua violata
Nella mattina del 23 ottobre, nonostante il cessate il fuoco, l’esercito israeliano (IDF) ha bombardato la zona di Sheikh Nasser, a sud di Khan Yunis. Nessuna vittima, ma un messaggio chiaro: la tregua è sempre più fragile.
È solo l’ultimo episodio di una lunga serie. Lo scorso 19 ottobre, Israele aveva colpito Gaza in risposta a un presunto attacco di miliziani palestinesi, causando almeno 45 morti.
L’intervento diretto della Casa Bianca era riuscito momentaneamente a frenare gli attacchi, ma la tensione resta altissima, con la popolazione civile ancora una volta intrappolata tra le promesse della diplomazia e il rumore delle sirene.
Crisi diplomatica: tra Blair, Vance e la ricostruzione
Sul piano politico, il “piano per la pace” mostra già crepe profonde.
Turchia, Qatar ed Egitto hanno espresso riserve ufficiali sul coinvolgimento di Tony Blair nell’organismo internazionale che dovrebbe gestire la ricostruzione della Striscia di Gaza, ritenendolo una figura divisiva e non neutrale.
Nel frattempo, cresce l’attesa per l’incontro tra J.D. Vance, vicepresidente degli Stati Uniti, e il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz. Vance, in missione diplomatica a Tel Aviv, chiederà garanzie concrete sull’impegno israeliano a rispettare la tregua, dopo che Washington aveva già imposto uno stop ai raid del 19 ottobre.
Ma senza un reale cessate il fuoco sul campo, le parole restano sospese come le macerie di Gaza: ferme, ma sempre pronte a crollare di nuovo.
L’ONU esclusa: Israele sfida l’Aja e blocca ancora l’UNRWA
La Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha stabilito che non esistono prove di un legame tra Hamas e l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi (UNRWA), ordinando a Israele di consentirne il ritorno operativo nella Striscia.
Tel Aviv, però, ha ignorato la sentenza.
Un funzionario israeliano, intervistato dall’emittente pubblica Kan, ha dichiarato che “l’UNRWA non metterà più piede a Gaza”, confermando che il governo ha già comunicato questa posizione a Washington nella speranza “che gli Stati Uniti concordino con Israele sulla questione”.
Nel frattempo, migliaia di sfollati restano senza aiuti e le ONG denunciano il collasso completo del sistema di distribuzione alimentare.
Ospedali al collasso, evacuazioni a singhiozzo
La crisi umanitaria continua a peggiorare.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, solo 14 ospedali su 36 sono parzialmente funzionanti. L’OMS è riuscita a evacuare 41 pazienti in condizioni critiche, ma migliaia di feriti restano intrappolati senza possibilità di trasferimento.
Mancano anestetici, antibiotici, carburante. I medici operano al buio, e interi reparti pediatrici sopravvivono grazie a generatori di emergenza.
Il carburante, quando arriva, è razionato. L’acqua potabile scarseggia. Il cibo viene distribuito a intermittenza, spesso scortato dai pochi convogli umanitari che riescono a passare i controlli.
Tregua non è pace
A Gaza, la parola “tregua” non significa silenzio delle armi, ma soltanto un nuovo modo di sopravvivere.
Ogni giorno di apparente calma nasconde un equilibrio instabile, pronto a spezzarsi.
E mentre i leader internazionali si stringono la mano tra i sorrisi diplomatici di Sharm el-Sheikh, nel sud della Striscia il rumore dei droni copre quello delle promesse.
Perché tra tregua e pace c’è un abisso.
E a Gaza, quell’abisso ha ancora il suono delle esplosioni.