Centonovantasette milioni: tante banane buttate sul tavolo per dire addio a San Siro. Un numero tondo, scintillante, utile ai comunicati stampa e ai rendering patinati. Ma dietro la cifra c’è un’operazione chirurgica: demolire non uno stadio, ma la memoria storico-calcistica di un’intera città.
Quei cervelloni della giunta hanno pure inscenato la commedia del melodramma stacanovista, riuniti fino alle tre del mattino come se stessero decidendo le sorti del pianeta. In realtà stavano votando la fine di un mito. Milano ancora si pente di aver cancellato i Navigli, e ora ci vogliono togliere il ricordo più intimo: la nostra prima volta a San Siro, mano nella mano con papà o con il nonno preferito. In nome di cosa? Della modernità?
San Siro non è cemento: è Rivera che porta il Milan in cima all’Europa, è Mazzola che corre sotto la pioggia con la maglia dell’Inter, è Ronaldo il Fenomeno che lascia tutti piantati sull’erba, è Kaká che vola da centrocampo, è Milito che segna nella notte del Triplete. È lo stadio che ha visto due anime rivali convivere nello stesso ventre, come fratelli che si odiano ma non possono stare lontani.
E mentre Giuseppe Sala si dice “soddisfatto” del risultato e già pensa ai prossimi passaggi amministrativi — sottolineando con orgoglio di “non aver mai fatto pressioni su nessuno” — la realtà è che la città si è spaccata. Forza Italia, per non sporcarsi le mani, ha preferito uscire dall’aula al momento del voto, finendo così per favorire la maggioranza e agevolare la vendita. Il solito teatrino: parole, rivendicazioni, responsabilità che rimbalzano come palloni sgonfi in una partita che Milano rischia di perdere davvero.
Intanto il cronometro corre: entro il 10 novembre bisognerà firmare il rogito, prima che scatti il vincolo sul secondo anello. Inter e Milan hanno accolto l’approvazione della delibera come “un passo storico e decisivo per il futuro dei club e della città”. Una città che, secondo loro, potrà vantare un nuovo stadio “icona architettonica”. Ma il rischio è che l’icona del futuro diventi un mausoleo al presente, costruito sulle macerie della memoria.
Il nuovo progetto promette “esperienza”, “family friendly”, “sostenibilità”: le stesse parole che ormai servono a imbellettare qualsiasi esproprio culturale. Al posto del catino popolare, un parco tematico per turisti, con schermi touch e birre da dodici euro. San Siro diventa un ricordo da cartolina, un gadget da vendere in aeroporto.
Il paradosso è che la città non riesce a gestire i propri marciapiedi, ma si illude di rifarsi il trucco con un’arena futurista. Mentre Milano affonda tra burocrazia, degrado e cronaca nera, l’unica priorità diventa abbattere ciò che ancora la tiene in piedi: l’identità collettiva.
Perché, come avrebbe detto un vecchio nonno milanista o interista, lo stadio non è mai stato solo uno stadio. Era il nostro tempio laico. E ora, mentre qualcuno conta i milioni e disegna i rendering, ci torna alla mente Pavese: “Era la stagione più bella della vita e non lo sapevamo”.