Una volta gli attori andavano in tv a parlare di film. O, nei casi più audaci, a difendere l’arte e la cultura nazionale. Oggi invece si va in televisione per raccontare di ex mogli, pozioni misteriose, depressioni post-matrimoniali e — se proprio avanza tempo — si cerca di sparare qualche siluro contro l’industria che dovresti tutelare. Michele Morrone, ospite da Belve, ha portato in dote tutto questo. E pure qualcosa di più: una nuova visione mistica del concetto di “attore ribelle”.
Da Bitonto a Netflix, passando per un matrimonio finito e due figli in Libano, Morrone ha raccontato di sé come di un reduce di guerra sentimentale. Tra ubriacature quotidiane e relazioni tossiche, il vero shock arriva quando rivela di essere stato drogato a sua insaputa con “pozioni d’amore e fiori secchi imbevuti”. Una confessione che ha il tono del fantasy urbano, ma detta con la serietà di un biopic drammatico. Ci manca solo la colonna sonora di Enya.
Poi — forse per non perdere del tutto di vista la parola cinema sulla locandina dell’intervista — Morrone cambia tono e parte all’attacco: il cinema italiano non lo rappresenta, lo esclude, lo respinge, insomma non lo vuole nel “circoletto”. Non si sente parte di un ambiente che si autocelebra, che giudica in base al curriculum accademico, che ti bolla come “diverso” se non arrivi dal Centro Sperimentale o dalla Silvio d’Amico. E mentre snocciola nomi e lancia frecciate più o meno velate, finisce per demolire in un colpo solo Luca Marinelli, Elio Germano e mezzo David di Donatello. Un piccolo capolavoro di indignazione social, condito da un post mattutino con i commenti disattivati: il nuovo standard del dissenso 2.0.
In sottofondo, il pensiero che aleggia è questo: se oggi la nuova coscienza critica del cinema italiano è Michele Morrone — ex protagonista di 365 giorni, film che ha dato una nuova dignità al soft porn polacco — allora sì, siamo davvero a fine corsa. E neanche quella ad alta velocità.
Ma il punto non è più nemmeno la qualità o meno del nostro cinema. È che ormai chi lo fa, o cerca di farlo, usa ogni microfono disponibile per raccontare qualunque cosa tranne il cinema. Salvo poi ricordarsene per dire che fa schifo, che è politicizzato, che è chiuso, che è pieno di sinistroidi e fake democratici. Insomma: se non ti hanno preso, è sicuramente perché sei troppo vero per loro.
Cosa servirebbe davvero al cinema italiano?
Non servono eroi da talk show, né prediche da camerino. Servono storie, registi che sappiano osare, produttori che non abbiano paura di fallire. Servono attori capaci di parlare con il pubblico attraverso i ruoli, non sopra di essi. Servono meno interviste terapeutiche e più film che restano. Meno pianti sul sistema e più voglia di spaccarlo con l’arte, non con i post su Instagram.
Servirebbe che, almeno per una volta, il cinema tornasse a essere il luogo dove si raccontano le ferite (non pipponi ideologici cover), non dove si mettono in scena in diretta. Dove si agisce, si crea, si rischia. Non dove si cerca una rivincita personale contro l’industria che non ti ha voluto bene.
E se proprio vogliamo un’idea rivoluzionaria: servirebbe che chi odia il cinema italiano, smettesse di volerci entrare. Sarebbe già un inizio.
E poi c’è Victoria Cabello, che sente il bisogno di entrare nella polemica con una dichiarazione degna di una gif del 2012: “Lui è un cane secondo me, però è una mia personalissima interpretazione”. Cara Victoria, grazie per averci ricordato che anche i silenzi a volte valgono più di mille interviste. La tua invettiva ha come effetto collaterale quello di rendere Morrone quasi simpatico.