Nel 2025 l’Italia si ritrova in una strana bolla: si lavora di più, ma si vive peggio. È il ritratto impietoso che emerge dal nuovo rapporto annuale dell’Istat, che non racconta favole ma dati: freddi, impietosi, a volte surreali. Come il fatto che gli over 80 superano i bambini sotto i dieci anni. È ufficiale: siamo un Paese che spegne più candeline di quante ne accenda.
L’occupazione cresce, ma il potere d’acquisto resta a terra. Le retribuzioni reali non hanno ancora recuperato la botta dell’inflazione, e i salari contrattuali sono ancora sotto del 10,5% rispetto al 2019. Anche contando gli extra (contratti integrativi, cambi di ruolo, miracoli occasionali), la perdita resta netta: -4,4%. Tradotto: si lavora di più, si guadagna di meno.
La fotografia della famiglia italiana è cambiata. Meno figli, più persone che lavorano sotto lo stesso tetto, più case di proprietà. Risultato: il reddito familiare, almeno nei numeri, cresce del 6,3% rispetto a vent’anni fa. Ma è un’illusione ottica: il singolo guadagna meno, si regge solo in squadra. E la squadra è sempre più ridotta all’essenziale.
Boomer ai comandi, Gen Z in panchina
Nel 2024 gli occupati sono aumentati di 352mila unità. Bene, anzi male: l’80% sono over 50. Giovani? Ancora fermi ai box, schiacciati tra percorsi formativi eterni e un mercato che li guarda con sospetto. Colpa anche delle pensioni che non arrivano mai: se non ti mandano a casa a 62 anni, resti. E i giovani aspettano. In fila.
Lavoriamo di più, ma produciamo meno. È il cortocircuito perfetto dell’economia italiana: l’occupazione cresce, sì, ma a trainarla non sono i settori strategici, quelli ad alta innovazione o tecnologia, bensì quelli che garantiscono tanta manodopera e poco valore aggiunto. Turismo, ristorazione, servizi alla persona, logistica spicciola. È la sindrome del “tutti camerieri” in salsa tricolore: lavori che si moltiplicano perché poco automatizzabili e sempre richiesti, ma che non alzano il livello complessivo del Paese.
Si lavora a orario pieno per stipendi part-time, si rincorrono stagioni, si cambia datore ogni tre mesi. Contratti a termine, paghe basse, prospettive nulle. Il risultato è un’illusione occupazionale: i numeri sembrano positivi, ma sotto la superficie c’è un mercato saturo di impieghi fragili, senza formazione, senza carriera, senza futuro.
Nel frattempo, la produttività — quella vera, che misura quanto valore si crea per ogni ora lavorata — arranca. Perché se l’economia è fatta di piatti serviti e lettini affittati, di certo non stiamo costruendo nulla che resti. Il rischio è evidente: diventare un Paese che lavora molto e non si arricchisce, che occupa ma non innova, che si regge su settori che non possono essere la spina dorsale di una nazione che voglia contare qualcosa nello scenario globale.
Il rischio povertà è il vero spread
Quasi un italiano su quattro è a rischio povertà o esclusione sociale. Al Sud si sale a quattro su dieci. I più esposti? I giovani, gli stranieri, chi ha vissuto una separazione o un lutto. E come spesso accade, la povertà non si ferma al portafoglio: colpisce anche la salute. Sempre più persone rinunciano a curarsi. Il 10% non può permettersi nemmeno una visita specialistica.
Per il 2025 le stime sono al ribasso. Crescita anemica, freni dal commercio globale, e un’Italia che resta in zona grigia. Unico spiraglio: i conti pubblici migliorano leggermente, l’indebitamento netto scende al 3,4% del Pil. Ma il debito resta un macigno: 135,3%. Un punto sotto le attese, ma sempre troppo sopra le possibilità.
Un Paese che studia di più, lavora di più, campa di più. Ma che produce meno, guadagna meno, e rischia molto di più. Non è un paradosso, è l’Italia del 2025.