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Caso Turetta, il ricorso della Procura: “Non si può ignorare la crudeltà. Giulia ha sofferto, ha lottato. E non era libera”

Filippo Turetta resterà in carcere a vita, ma ora la battaglia si sposta sul piano giuridico. Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha già segnato l’opinione pubblica. Ora, a cercare di lasciarne traccia anche nella giurisprudenza, è il ricorso presentato dalla Procura di Venezia contro la sentenza di primo grado: nel mirino ci sono le due aggravanti escluse dalla Corte, crudeltà e stalking. Riconosciuta, invece, la premeditazione.

Le motivazioni del verdetto su Turetta

Le motivazioni del verdetto avevano fatto scalpore: settantacinque coltellate non erano bastate a dimostrare la crudeltà. Una scelta spiegata tecnicamente: Turetta, secondo i giudici, non avrebbe agito per infliggere sofferenza gratuita, ma per eliminare con lucidità una persona che non lo voleva più. Una forma di razionalità fredda, che esclude il “raptus” e fa crollare la retorica della perdita di controllo.

Ora il nodo è proprio questo: come sostenere, senza contraddirsi, che Turetta sia stato al tempo stesso razionale e crudele? La Procura ci proverà. Anche su pressione degli avvocati della famiglia Cecchettin – Stefano Tigani, Nicodemo Gentile e Piero Coluccio – che hanno sollecitato l’impugnazione.

“Abbiamo pieno rispetto per la Corte – spiega l’avvocato Tigani – ma secondo noi crudeltà e stalking c’erano. Non si tratta di accanimento, Turetta ha già avuto l’ergastolo. Ma i fatti vanno chiariti”.

A entrare nel merito è Coluccio: “Giulia è stata uccisa in tre fasi: nel parcheggio vicino casa, in auto, e poi nella zona industriale di Fossò. In ogni momento lui aveva il controllo e lei era nella totale incapacità di difendersi. È stata colpita 75 volte. Ha sofferto, ha lottato, ma non ha potuto salvarsi. Questa è crudeltà”.

Poi c’è lo stalking. Una violenza invisibile ma costante, iniziata molto prima dell’agguato. “Giulia viveva in uno stato d’ansia continuo – spiega ancora Coluccio – riceveva ogni giorno messaggi dal suo ex, era costretta ad passare tempo con lui per paura che si facesse del male. I giudici non hanno visto una modifica delle sue abitudini, ma per noi la privazione della libertà era evidente: Giulia non era più libera di autodeterminarsi, e questo è un effetto diretto della pressione che lui esercitava”.

Adesso tocca alla Corte d’Assise d’appello. Ma per la famiglia Cecchettin, la vera condanna è già scritta: “Giulia non ha mai avuto la possibilità di salvarsi. Ma almeno che si dica tutto, fino in fondo”.

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