In Italia non basta più il sangue per sentirsi italiani. O meglio: ne serve uno più fresco. Il Senato ha approvato con 81 voti favorevoli e 37 contrari il decreto sulla cittadinanza. La Camera è il prossimo passaggio, ma il succo è già chiaro: lo ius sanguinis si restringe, e con esso l’illusione di appartenere a un Paese solo per diritto ereditario.
Il decreto – già operativo da marzo – taglia corto: da oggi, fuori i bis-bis-nipoti di emigranti in cerca di passaporto tricolore. Restano dentro solo figli e nipoti di italiani nati in Italia. Per tutti gli altri, serve un legame “effettivo” col Paese. Che non vuol dire “guardare Sanremo”, ma dimostrare di avere radici vive, non solo anagrafiche.
Dietro le buone intenzioni di “evitare abusi”, si intravede una stretta identitaria, il tentativo di sfoltire le file di nuovi cittadini “per discendenza”. Chi nasce altrove, anche se da sangue italiano, dovrà provarlo davvero di appartenere. O meglio: dovrà guadagnarselo.
L’Italia chiude una finestra spalancata dal 1992, quando bastava una nonna calabrese o un trisavolo veneto per ritrovarsi con il passaporto europeo. Oggi il principio resta, ma perde automatismo. Come a dire: italiano sì, ma con riserva.
Più che un taglio al diritto, sembra un messaggio politico: “Se vuoi essere dei nostri, dimostralo”. Forse è anche il segnale che essere italiani, per una volta, vale ancora qualcosa.