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Draghi torna in cattedra: l’Europa deve svegliarsi, smettere di campare con le mance dell’America e imparare a camminare con le proprie gambe.

Mario Draghi ha parlato. Stavolta da Coimbra, in Portogallo, durante il XVIII Cotec Europe, pomposamente intitolato A call to action — e come ogni “call” che si rispetti, tutti hanno risposto con l’eco di un viva voce spento. Ma lui ci ha tenuto lo stesso a ribadirlo: l’Europa deve svegliarsi, smettere di campare con le mance dell’America e imparare a camminare con le proprie gambe. Spoiler: zoppichiamo.

Il messaggio è chiaro, ma come sempre lo dice in modo da non far capire subito se stia benedicendo o bastonando. Serve un accordo con gli USA per evitare di farci macellare dazi su dazi, ma al tempo stesso è meglio abbandonare l’illusione che tutto possa tornare come prima. Tradotto: vi siete aggrappati troppo al consumatore americano, ora arrangiatevi.

Nel mentre, la nostra strategia post-crisi è stata un capolavoro al contrario: reprimere i salari, tagliare la spesa pubblica, aspettare che la crescita arrivasse da sola — possibilmente da fuori. Così gli Stati Uniti aumentano il potere d’acquisto, noi restiamo fermi come una figurina Panini incollata male. La domanda interna è morta e sepolta, e ci consoliamo con le esportazioni come fossero il nuovo oppio dei popoli.

Peccato che anche quelle siano appese a un filo, anzi a un aereo cargo diretto verso un’America sempre meno disposta a giocare al “compratore gentile”. Se gli USA rallentano, ci portano giù anche i nostri partner. Siamo esposti direttamente e indirettamente, come se l’Atlantico fosse diventato un guinzaglio economico. E mentre loro dettano le regole, noi cerchiamo ancora la penna per firmare l’accordo.

Il problema? Draghi lo dice senza dirlo: l’Europa ha smesso di credere in sé stessa. Abbiamo aperto più verso il mondo che verso noi stessi, lasciando che le barriere interne nei servizi resistessero meglio del Colosseo. Gli investitori sono fuggiti, i tassi di rendimento sono scesi sotto terra, e intanto Bruxelles si trastulla con la grammatica delle direttive.

E allora sì, lo dice ancora: serve debito comune. Non l’elemosina mutualizzata, ma uno strumento vero, che tenga insieme difesa, investimenti, sicurezza e credibilità. Un safe asset europeo che dia profondità a mercati finanziari finora più frammentati di una coalizione elettorale italiana.

Insomma, Draghi ci fa il solito sermone: l’Europa è ancora troppo dipendente, troppo fragile, troppo timida. E mentre il mondo corre, noi cerchiamo di decidere chi deve accendere la luce.

Lo ha detto dal palco, con la sua solita voce da chirurgo delle verità scomode. Noi, da qui, lo sintetizziamo come piace a Dillinger: basta piagnistei. O l’Europa comincia a farsi il pane da sola, oppure si prepari a mangiare avanzi sempre più freddi.

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