In un Paese dove la democrazia è spesso un’ospite tollerata, il referendum è l’ultimo superstite di un’epoca in cui al cittadino veniva concessa l’illusione (e qualche volta la sostanza) del potere. È l’unico momento in cui la democrazia non si limita a essere rappresentata, ma si fa diretta. Senza filtri. Senza intermediari. Senza deputati che dormono in aula o senatori eletti con il telecomando.
Ed è proprio per questo che va difeso. E soprattutto va promosso. Dai media, dai giornali, dai talk show, dalle radio, dai social. Perché è un dovere d’informazione, non un favore ai promotori.
Invece, ogni volta che un referendum si avvicina, assistiamo al grande blackout: si oscurano i temi, si minimizza l’appuntamento, si snobba la data. Sembra quasi che faccia paura, la possibilità che un cittadino pensante metta una croce su un pezzo di carta. Non si sa mai che decida davvero qualcosa. Che voti “male”. Che non segua la linea del partito.
Ma il referendum è la spina dorsale delle poche riforme civili di cui possiamo andar fieri.
Nel 1974, grazie al referendum sul divorzio, l’Italia ha scelto di non tornare all’età della pietra: 59% di NO alla proposta abrogativa della legge Fortuna-Baslini. Non fu una battaglia facile. Il Vaticano in prima fila, i conservatori all’attacco. Eppure vinse la libertà.
Nel 1981 ci fu quello sull’aborto. Anche lì: i partiti democristiani e il Movimento per la Vita volevano abrogare la 194. Ma il popolo scelse di non tornare indietro. Il 68% dei votanti respinse la proposta. Anche allora, giornali e tv divisero: alcuni parlarono, altri tacquero. Altri, peggio, fecero propaganda.
Poi ci fu il referendum sulla scala mobile, nel 1985. Bettino Craxi invitò gli italiani “ad andare al mare”. Era il modo più elegante per dire: non rompete. Non disturbate l’ordine. Il referendum come fastidio.
Oggi, trent’anni dopo, sentiamo ancora frasi come quella di Ignazio La Russa. Tutto lecito. La democrazia lo permette. Ma attenzione: non è compito dei media fare campagna, né pro né contro. Il loro compito è informare, spiegare, dare strumenti. Non chiudere i microfoni.
Perché se ogni cittadino ha il diritto di votare, ogni giornalista ha il dovere di parlare. Parlare anche se il tema non fa audience. Parlare anche se la linea editoriale è tiepida. Parlare anche se non conviene.
Non si tratta di votare sì o no. Si tratta di esserci. E se perfino un politico può dire “andate al mare”, un giornale non può permettersi di restare in panchina.
Poi vennero gli anni Duemila. Nel 2011, gli italiani votarono su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento. L’affluenza superò il 57%. Vinsero i SÌ, ma l’effetto fu quello di una sassata contro un vetro blindato: il giorno dopo era già tutto dimenticato. Lo tsunami mediatico durò lo spazio di un post su Facebook. Il dibattito evaporò in poche ore. Un Paese intero aveva parlato, ma nessuno aveva voglia di ascoltarlo.
Nel 2022, infine, fu la volta dei referendum sulla giustizia. Sei quesiti tecnici ma decisivi. Affluenza: 20%. Colpa della complessità dei temi? Forse. Ma anche della totale assenza di divulgazione, discussione, confronto. Nessun giornale fece davvero da ponte. Nessun talk show aprì una stagione di confronto civile. Nessun influencer ne parlò senza svogliatezza. Un’occasione bruciata nella cenere dell’indifferenza.
Non è questione di Rai o Mediaset. Non è questione di destra o sinistra. È questione di cultura democratica.
E la cultura democratica si nutre di partecipazione, di conoscenza, di confronto. Non di astensionismo passivo, di snobismo politico, di delega cieca. Chi ha paura del referendum, ha paura della complessità. Chi non lo racconta, ha paura della libertà altrui.
Ecco perché i media devono parlarne. Non perché ci credono. Ma perché devono. È la base del mestiere. Ogni volta che i media di informazione lasciano il cittadino solo, contribuiscono a creare un’ignoranza istituzionale che diventa servitù permanente.
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