C’è una galera che somiglia a un parcheggio disumano, in cui si sopravvive tra letti a castello arrugginiti, celle condivise da tre o quattro persone, finestre sprangate e disperazione a ciclo continuo. È la galera dell’abbandono, quella che punisce senza rieducare, che alimenta odio, frustrazione, e spesso peggiora chi vi entra. È la galera che non redime, perché nessuno lì dentro si prende più la briga di capire chi sei.
Poi c’è un altro tipo di carcere. Quello che ci piace raccontare come “modello”. Dove si lavora, si studia, si parla di reinserimento. Dove si cerca di dare un’altra possibilità a chi ha sbagliato. Emanuele De Maria viveva in quella seconda galera. Bollate, carcere simbolo della rieducazione all’italiana. Usciva per andare a lavorare in un albergo milanese, indossava la divisa, registrava i nuovi ospiti ed era sempre a contatto con il pubblico, insomma, un lavoro che tante persone perbene incensurate sognano. Per molti: il detenuto perfetto. Ma sotto la superficie si agitava un’altra storia.
Secondo quanto ipotizzato dalla Procura di Milano, De Maria avrebbe premeditato tutto. Prima il presunto omicidio di Chamila Wijesuriya, barista cinquantenne dell’hotel in cui lavorava. Poi il tentato omicidio di un altro collega, Hani Nasr, che è riuscito a difendersi ed è sopravvissuto. Infine, la fuga. E quella morte spettacolare, teatrale, consumata gettandosi dalle terrazze del Duomo. Non una scelta qualunque, non un luogo qualunque. Ma il cuore simbolico della città, il suo altare laico. Una messinscena finale che lascia intravedere un bisogno di controllo, di potere, di lasciare il segno.
Non era un gesto disperato, era un epilogo pensato. Come se tutto, in De Maria, seguisse un copione oscuro che nessuno ha voluto o saputo leggere in tempo. E qui si apre la vera ferita.
Chi valuta davvero la pericolosità di un individuo? Chi distingue tra pentimento e strategia? Chi ha gli strumenti – reali, non teorici – per dire che un assassino può tornare a calpestare le strade, lavorare in mezzo alle persone, ricostruirsi una vita?
Non si può chiedere a un carcere di essere un ospedale psichiatrico, un centro di recupero e un tribunale morale allo stesso tempo. Se vogliamo che la pena abbia un senso, dobbiamo scegliere: o la affidiamo solo alla reclusione, oppure la trasformiamo davvero in un percorso di cura. Ma per farlo servono professionisti, non moduli da compilare. Servono strutture, tempo, formazione. E soprattutto: responsabilità.
Perché quando lo Stato apre una cella, quel gesto non è mai neutro. È una scommessa sulla vita degli altri. E se la perde, non può far finta di niente.
De Maria ha tradito la fiducia concessagli. Ma prima ancora, forse, qualcuno ha tradito il compito di proteggerci da lui.
L’articolo chiave della Costituzione Italiana su questo tema è l’articolo 27, che recita:
“La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
In particolare, l’ultima frase è quella più discussa nel contesto delle carceri e della giustizia penale. Cosa significa “tendere alla rieducazione del condannato”? Non è una formula generica: è un principio cardine dello Stato di diritto. Implica che lo scopo della pena non è solo punire, ma trasformare, restituire alla società un individuo diverso da quello che ha commesso il reato.
Allo stesso tempo, la Costituzione non dice quando e come questo debba avvenire. Né specifica in che misura la rieducazione debba avere la priorità rispetto alla sicurezza collettiva. Questo è il nodo irrisolto — e la trappola.
Nel caso De Maria, si potrebbe dire che lo Stato ha applicato l’articolo 27. Ha tentato di rieducare. Ma l’ha fatto con leggerezza, senza strumenti adeguati, senza una vera valutazione del rischio. La legge è stata rispettata. Lo spirito, molto meno; forma e sostanza…