Tutto parte da una promessa mai mantenuta. Nel 1947, quando l’impero britannico si ritirò dal subcontinente indiano, lasciò dietro di sé una faglia geopolitica destinata a non rimarginarsi mai: la Partizione. India e Pakistan nacquero in un bagno di sangue, divisi da religione, ideologia e interessi territoriali. Il Kashmir, regione a maggioranza musulmana ma governata da un maharaja induista, decise di aderire all’India, scatenando la prima guerra indo-pachistana. Da allora, tre conflitti ufficiali, migliaia di morti, e un’unica costante: nessuna pace vera.
È l’ennesima eredità tossica di un mondo che ha disegnato i confini con la squadra e il compasso delle potenze coloniali, ignorando etnie, lingue, radici, storie. Una mappa costruita per dividere e controllare. E quando l’Impero lascia, il caos resta. Come in India, come in Palestina. Sono passati più di settant’anni, ma gli effetti collaterali della geopolitica imperiale continuano a esplodere in faccia ai popoli che ne sono stati vittime.
Oggi, mentre India e Pakistan si accusano a vicenda di attacchi missilistici, bombardamenti e abbattimenti di aerei, è impossibile non notare il parallelismo con quanto accade in Israele e nei Territori Occupati. Anche lì, confini tracciati a tavolino, promesse mai rispettate, referendum mai celebrati. Anche lì, il diritto all’esistenza di un popolo è diventato un campo minato. Anche lì, civili che pagano il prezzo di decisioni prese da altri, in epoche in cui l’uomo bianco si arrogava il diritto di decidere il destino del mondo.
Nel frattempo, le diplomazie occidentali ripetono il solito mantra: moderazione, dialogo, equilibrio. Ma è un equilibrio che non tiene, perché fondato su ingiustizie storiche mai risolte. E oggi che droni e propaganda si fondono in una nuova forma di guerra, la verità diventa sempre più difficile da afferrare.
L’Unione Europea si dice “preoccupata”. L’Italia prova a mediare. L’India risponde con il silenzio. Il Pakistan promette vendetta. Ma sotto questa coltre di comunicati, rimane solo il rumore di fondo di un mondo che non ha mai fatto davvero i conti con il suo passato. Abbiamo esportato democrazie a colpi di trattati, imposto sistemi senza conoscere i popoli, acceso micce che ancora oggi bruciano.
Il Kashmir – come Gaza, come il Donbass, come il Congo – non è solo un teatro di guerra. È lo specchio di un secolo in cui l’avidità ha vinto sulla saggezza, in cui l’ordine mondiale è stato costruito sulle disuguaglianze e i compromessi, mai sulla giustizia.
E allora sì, cerchiamo pure di capire cosa sta succedendo tra India e Pakistan. Ma facciamolo con onestà: quello che vediamo oggi non è altro che la lunga, interminabile coda di un imperialismo che ci ha lasciato confini sbagliati, odi ereditati, popoli divisi e ferite mai curate.
E finché non avremo il coraggio di riconoscere questa origine, continueremo a stupirci di guerre che in fondo avevamo pianificato noi.