In Europa si torna a parlare di galere. Non per una riforma. Ma perché stanno scoppiando.
Secondo l’ultima fotografia scattata da Eurostat, nel 2023 i detenuti presenti nelle carceri dell’Unione Europea erano circa 499.000, in aumento del 3,2% rispetto al 2022. A colpire non è solo il numero assoluto, ma il fatto che dal 2020 la tendenza sia in crescita costante: dopo un minimo di 463.000 reclusi (durante la pandemia), oggi siamo di nuovo in salita. L’indice medio UE è di 111 detenuti ogni 100.000 abitanti, ma la media non racconta tutto.
Il vero shock arriva guardando il podio del sovraffollamento. In vetta c’è Cipro, che ha ormai triplicato la capienza con un tasso del 226,2%. Seguono Francia (122,9%) e Italia (119,1%). Sì, l’Italia è sul podio. Ma non si applaude.
Le carceri italiane sono ufficialmente in collasso operativo. Lo conferma anche la Corte dei Conti nella sua ultima relazione: “Situazioni ai limiti dell’emergenza”. In Umbria, ad esempio, il numero dei detenuti ha superato di 300 unità la soglia regolare, con un tasso di saturazione oltre il 120%. A Terni, nell’aprile 2024, ci sono oltre 600 persone rinchiuse in uno spazio pensato per 422. Giuseppe Caforio, garante regionale, ha smesso di cercare giri di parole: “l’implosione è imminente”.
E se il sovraffollamento è drammatico, lo è ancora di più la sorte dei detenuti fragili. Come il 55enne suicidatosi il primo maggio nel carcere di Sabbione. Doveva essere trasferito in una struttura idonea. È rimasto a marcire in cella. L’ennesima vita che si spezza in un sistema incapace di proteggere chi non sa difendersi.
In fondo alla classifica ci sono nazioni che dimostrano che un’altra gestione è possibile. Finlandia, Paesi Bassi e Slovenia. Non perché siano più permissive. Ma perché hanno investito in prevenzione, giustizia alternativa, riabilitazione reale.
In Italia, invece, il carcere è la discarica della marginalità. Non serve a rieducare, ma a punire e dimenticare. È l’ultima fermata per poveri, tossicodipendenti e malati psichici. Il personale è esausto, le strutture logore, le attività rieducative quasi assenti. Un sistema destinato a ripetersi. E a fallire.
Esiste una via d’uscita? Sì: il lavoro. Non come riempitivo, ma come progetto vero. Serve un carcere che formi, non che chiuda. Dove il detenuto possa acquisire competenze, costruire una dignità, prepararsi a rientrare nel mondo.
Come? Coinvolgendo imprese con incentivi fiscali, trasformando gli istituti in laboratori produttivi e creativi, portando dentro mestieri del futuro: artigianato, digitale, coding, stampa 3D. Serve una rete di tutor e aziende pronta ad accogliere chi esce e vuole cambiare.
Esperienze già ci sono. In Emilia-Romagna, ad esempio, alcuni detenuti sono diventati panettieri, falegnami, tecnici. Funziona. Ma manca una regia nazionale. Una strategia vera.
Il carcere del futuro non è un bunker. È un ponte.
Un ponte tra chi ha sbagliato e una società che può scegliere: punire e scartare, o correggere e includere.
L’Europa ha acceso la sirena. L’Italia può ancora rispondere. Ma il tempo sta per scadere.