I Patagarri, la band salita sul palco del Concertone del Primo Maggio intonando “Palestina libera” sulle note di Hava Nagila – uno dei canti più simbolici dell’ebraismo – si difendono. E lo fanno accusando chi li ha criticati di aver frainteso il senso del loro gesto. Ma a ben vedere, è proprio quella scelta a raccontare qualcosa di molto più grave. Perché appropriarsi di una canzone identitaria ebraica per declinarla in chiave politica contro Israele, non è un atto neutro. Non è una provocazione innocente. È una torsione culturale violenta, e anche piuttosto consapevole.
I Patagarri e la “loro versione”
“Macabro è un mondo nel quale migliaia di bambini vengono ammazzati, gli ospedali bombardati, i civili sterminati”, hanno scritto i Patagarri in un post su Instagram, rispondendo alle accuse della Comunità Ebraica di Roma – che aveva definito l’esibizione “ignobile, sinistra e macabra”. “Siamo esseri umani che non riescono a stare in silenzio di fronte alla morte e alla distruzione”, continuano. E ancora: “Abbiamo sentito la necessità di privare Hava Nagila del testo originario, che parla della gioia di stare insieme, per sottolineare che da troppo tempo, in Medio Oriente, quella gioia non esiste più”.
Non si tratta di libertà di espressione
Ma qui non si tratta di dolore – che è reale, da ogni lato – né di libertà d’espressione, che nessuno ha messo in discussione. Si tratta di come quel dolore viene strumentalizzato, brandito, e infine manipolato per alimentare un’ostilità strisciante che sempre più spesso sfocia in un antisemitismo conclamato. Che la band non si dichiari “contro una popolazione o l’altra” conta poco, quando si sceglie deliberatamente di riscrivere il significato di un canto ebraico per gridare contro Israele. Come se la cultura ebraica potesse essere spogliata, rimaneggiata, svuotata del suo senso per servire una narrazione politica.
“Mettiamoci d’accordo su quali sono le parole giuste per chiedere che i bambini non muoiano più”, concludono i Patagarri, “senza essere accusati di invocare la distruzione del popolo israeliano”. Ma non serve un trattato di linguistica per capire che non è “la parola sbagliata” a generare accuse di antisemitismo: è il gesto, è il contesto, è la retorica con cui – di fatto – si spinge sempre più l’opinione pubblica a pensare che ogni voce ebraica sia corresponsabile, e ogni simbolo israeliano sia un bersaglio legittimo.
A chi oggi finge stupore, conviene ricordare che sì, esiste un antisemitismo contemporaneo. E no, non ha bisogno di svastiche: gli basta una canzone ebraica, trasformata in slogan.