
La Cpi tira dritto: Israele respinto
La Corte penale internazionale non arretra di un millimetro. Con una decisione netta, lunga 44 pagine, i giudici dell’Aja hanno respinto il ricorso di Israele contro la propria competenza sull’indagine relativa ai presunti crimini commessi nella Striscia di Gaza. E soprattutto hanno confermato la validità dei mandati di arresto emessi nel novembre 2024 contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. Il messaggio è chiaro: la Corte non si lascia intimidire, né piegare dalla pressione politica.
Un’indagine che viene da lontano
Uno dei punti centrali della sentenza è spesso rimosso dal dibattito pubblico: l’inchiesta della Cpi sui territori palestinesi non nasce dopo il 7 ottobre, ma nel 2021. È precedente alla guerra di Gaza, precedente all’offensiva israeliana, precedente alla narrazione emergenziale che Tel Aviv tenta di imporre. Proprio per questo la Corte ribadisce la propria giurisdizione: non si tratta di un’indagine “contro Israele” per un singolo evento, ma di un fascicolo ampio sui presunti crimini di guerra e contro l’umanità nei territori palestinesi.
Netanyahu e Gallant sotto accusa
I mandati di arresto restano in piedi. Netanyahu e Gallant sono formalmente accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La decisione della Corte consente ora alla Procura di riprendere pienamente il lavoro investigativo, senza i limiti imposti dal ricorso israeliano. Un passaggio che pesa come un macigno sul piano politico e simbolico: per la prima volta, la leadership israeliana si trova esposta fino in fondo al diritto penale internazionale.
La reazione di Tel Aviv: delegittimare la Corte
La risposta israeliana non si è fatta attendere. Il ministero degli Esteri, oggi guidato da Gideon Sa’ar, ha parlato apertamente di una decisione “politicizzata”. Secondo Tel Aviv, la Camera d’Appello avrebbe negato a Israele il diritto a un preavviso, violando il principio di complementarità e ignorando — parole loro — l’esistenza di un sistema giudiziario “democratico, indipendente e solido”. Il comunicato pubblicato su X accusa la Cpi di mancanza di rispetto per la sovranità degli Stati non membri e chiude con una formula che suona come una scomunica: “politica sotto le spoglie del diritto internazionale”.
Diritto o politica? La linea di faglia
È il solito copione. Quando il diritto internazionale colpisce i nemici, è giustizia. Quando sfiora gli alleati, diventa improvvisamente politica. La Cpi, invece, ribadisce un principio semplice e scomodo: nessuno è al di sopra della legge, nemmeno un primo ministro in carica, nemmeno uno Stato che rivendica il diritto all’autodifesa come scudo assoluto. Il fatto che la decisione sia stata presa a maggioranza non ne indebolisce il valore, ma mostra quanto il tema sia esplosivo anche all’interno delle istituzioni internazionali.
Una frattura che si allarga
La sentenza dell’Aja apre una crepa profonda nei rapporti tra Israele e la giustizia internazionale, ma anche tra Occidente e Cpi. Difendere lo Stato di diritto a parole è facile. Accettarne le conseguenze quando colpiscono chi governa è un’altra storia. E la Corte, oggi, ha scelto di non voltarsi dall’altra parte.

















