Un premio che racconta più di quanto voglia dire
Time ha scelto: la Persona dell’Anno non è una persona. È un’idea. È un’industria. È un ingranaggio. Gli “architetti dell’AI”, i costruttori del sistema che sta ridefinendo il nostro modo di vivere, di lavorare, di pensare, diventano il volto del 2025.
E già questo, da solo, racconta molto: siamo entrati nell’era in cui l’uomo premia se stesso non per ciò che è, ma per ciò che sostituisce di sé.
Un riconoscimento che suona come un paradosso
Premiare l’intelligenza artificiale – o meglio, chi la governa – significa celebrare la cosa che più di tutte sta scardinando la nostra idea di intelligenza naturale.
È come se Time dicesse: “Congratulazioni, avete creato qualcosa di così potente da rendere superflua buona parte della nostra fatica mentale.”
Il paradosso è feroce: l’essere umano è pigro per natura, e adesso sta premiando coloro che gli hanno costruito la scorciatoia definitiva. Chi ci ha tolto lo sforzo, la lentezza, la fatica, la curiosità.
L’uniformazione del pensiero: l’effetto collaterale che non vogliamo vedere
Non è solo una questione tecnologica. È una questione culturale.
Se l’AI scrive, riassume, crea, seleziona, ottimizza, il rischio non è perdere la manualità:
il rischio è perdere la varietà del pensiero umano.
Le parole cominceranno a suonare tutte uguali, le idee a sembrare tutte ottimizzate, levigate, ripulite.
L’AI è fenomenale, utilissima, straordinaria. Ma non è originale.
E quando la creatività umana comincia a imitare la sua prevedibilità, è lì che perdiamo davvero qualcosa.
La gloria dei costruttori e il silenzio dei lettori
Time mostra i giganti: Musk, Zuckerberg, Altman, Su, Huang. Seduti su una trave, come degli operai del nuovo secolo.
Costruttori di un mondo che non richiede martelli, ma cervelli. Cervelli che però, paradossalmente, stanno rendendo superfluo l’uso del nostro.
Mentre loro crescono, monetizzano, modellano il futuro, noi restiamo a guardare: affascinati e anestetizzati.
Abbiamo creato una tecnologia che pensa più veloce di noi, e abbiamo smesso di chiederci se questo ci renda più liberi o semplicemente più dipendenti.
Un premio che rivela la fragilità della nostra epoca
La Persona dell’Anno non è una persona: è un sistema.
Un insieme di menti che hanno costruito qualcosa di potentissimo, ma che non sappiamo ancora governare davvero.
La verità è che Time non celebra il progresso: celebra il dominio. L’influenza. L’impatto.
E l’impatto dell’AI, nel bene e nel male, oggi è totale. Così totale da oscurare tutto il resto.
E allora la domanda diventa inevitabile
Se il mondo celebra gli architetti dell’AI, chi celebra gli architetti della mente umana?
Chi difende ancora l’idea che pensare, davvero pensare, sia un atto insostituibile?
Perché il rischio non è un futuro più tecnologico:
il rischio è un futuro più omologato.
Un futuro in cui l’uomo non viene premiato per il suo coraggio, la sua visione, la sua unicità… ma per aver costruito una macchina che lo sostituisce meglio di quanto riesca a fare lui stesso.
E allora sì, gli architetti dell’AI sono la Persona dell’Anno.
Ma proprio per questo dovremmo chiederci:
in tutto questo, dov’è finita la persona?


















