Il solito copione: bombe vere, piani finti
Mentre l’inverno cala su un’Ucraina già stremata e i missili russi continuano a colpire palazzi, ospedali e centrali energetiche, da Washington arriva l’ennesima favola patinata: “Il nuovo piano di pace”.
Una frase che ormai suona come una barzelletta tragica.
L’abbiamo già vista a Gaza, in Medio Oriente, in mille altri dossier: una bella confezione diplomatica da consegnare ai media, mentre sul terreno la realtà continua a esplodere. Questa volta il palcoscenico è l’Ucraina, e la sceneggiatura arriva ancora dagli USA. Più precisamente, dalla diplomazia muscolare – ma solo a parole – del tycoon Donald Trump.
Il camaleonte narrativo: Mosca “vuole la pace”… mentre bombarda
Una fonte della Casa Bianca, citata dalla CNN, sostiene che il Cremlino avrebbe dimostrato di voler raggiungere la pace.
Una frase che, letta da chi vive sotto le bombe, deve suonare come una provocazione.
Perché puntualmente, ogni volta che arriva un “segnale di pace” da Mosca, le città ucraine si ritrovano con nuovi crateri al posto delle strade. Ma gli emissari americani — fedeli allo stile comunicativo trumpiano: slogan forte, sostanza debole — arrivano lo stesso con un documento da 28 punti. Peccato che sembri più un manuale di capitolazione che un accordo di tregua.
Un piano scritto per Putin, presentato a Kiev
I punti rivelati descrivono una “pace” che assomiglia a un esproprio geopolitico: Cessione totale del Donbas, anche delle aree non occupate. Riduzione drastica dell’esercito ucraino, dimezzato. Limitazioni severe alle armi, così da non potersi più difendere. Lingua russa come seconda lingua ufficiale. Ripristino della chiesa ortodossa fedele a Mosca.
La domanda è semplice: a chi serve davvero questa pace?
A chi bombarda o a chi viene bombardato?
Soprattutto perché il documento è stato preparato senza l’Ucraina e senza l’Europa. L’ennesimo accordo scritto altrove per essere imposto a chi ne subirà le conseguenze.
La diplomazia-spettacolo del tycoon: forte nelle dirette, debole nella realtà
Trump e la sua squadra hanno trasformato la diplomazia in intrattenimento: dirette, annunci, frasi ad effetto, slogan da talk show.
“Stop alle guerre”, “Basta morti”, “È ora di fare la pace”. Parole perfette per i titoli. Peccato che ogni volta che arriva uno di questi piani, le guerre non si fermano: cambiano solo gli hashtag. È marketing geopolitico: vendere al mondo l’idea di una soluzione, pur sapendo che non arriverà mai.
La macchina delle illusioni: ciò che serve ai governi, non alla gente
Questi piani servono soprattutto alla politica. Servono a dire: “Abbiamo fatto qualcosa”. Servono ai giornali: “C’è un piano di pace americano”. Servono alle TV: “Nuovo accordo in arrivo”. Non servono a chi vive nelle cantine per paura delle bombe. Non servono a chi scava tra le macerie. Non servono ai bambini che imparano a distinguere il suono dei droni da quello dei missili. Servono solo a dimostrare che la diplomazia sa ancora raccontare belle storie, anche quando non può cambiare nulla.
Il nodo politico: una “pace” modellata come Gaza
Il piano ucraino ricorda in modo inquietante quello — mai attuato — per Gaza: un elenco di condizioni, vincoli, rinunce.
Un compromesso che sembra scritto più per la parte forte che per quella debole.
A Kiev verrebbero lasciate briciole: garanzie di sicurezza vaghe, forse americane, forse europee, ma senza i dettagli fondamentali. Niente ingresso nella NATO. Niente difesa credibile. Niente reale indipendenza.
In cambio, l’Ucraina dovrebbe accettare ciò che la Russia chiede da due anni di guerra.
L’Europa? Spettatrice silenziosa
Come ha denunciato Domenico Quirico, l’Europa ancora una volta scopre il piano a cose fatte.
A giochi chiusi.
A trattative già svolte sopra la sua testa.
Il Vecchio Continente, che questa guerra la sente sulla pelle, rimane fermo: osservatore non invitato a una partita che lo riguarda più degli Stati Uniti.
Dietro la facciata: non è un negoziato, è un ricatto
Gli emissari americani — tra cui generali e il segretario dell’Esercito USA — arrivano a Kiev per presentare una “tregua” che ha il sapore del ricatto: prendere o lasciare.
Una sorta di ultimatum travestito da proposta di pace.
E mentre il Cremlino finge di non saperne nulla — come da manuale — il piano circola, si rafforza, diventa narrazione.
Chi può credere ancora a questa pace?
Forse qualcuno, seduto molto lontano dal fronte.
Qualcuno che non ha mai sentito la terra tremare sotto i bombardamenti.
Qualcuno che vive di conferenze stampa e pranzi diplomatici.
Ma chi vive davvero questa guerra, chi la racconta, chi osserva la politica da anni, lo sa:
non si può chiamare “pace” ciò che assomiglia a una resa obbligata.
Conclusione: la pace non si annuncia, si costruisce
La pace non è un pdf da 28 punti. Non è un tweet. Non è un comunicato alla stampa. La pace è una scelta politica.
Richiede coraggio, sacrifici, diplomazia vera, responsabilità. E oggi non la sta costruendo nessuno: non la Russia, che continua a bombardare; non l’America, che confeziona piani mai credibili; non l’Europa, immobile e messa all’angolo.
Finché la politica userà la pace come slogan e non come azione, ciò che arriverà da Washington sarà sempre lo stesso: un’altra promessa, un’altra illusione.


















