L’omicidio che sconvolse l’estate del 2017
Era il giugno del 2017 quando, in una casa vacanze di San Teodoro, in Sardegna, una lite tra due fidanzati si trasformò in un massacro. Lei era Erika Preti, vent’anni appena, lui Dimitri Fricano, allora ventinovenne. Durante una discussione esplosa per futili motivi, Fricano la colpì con 57 coltellate, lasciandola agonizzante sul pavimento. Disse inizialmente di essere stato aggredito da dei rapinatori, poi confessò. Il movente, come spesso accade in certi delitti, era la rabbia cieca, il possesso, l’incapacità di accettare un “no”.
Il caso scosse l’opinione pubblica. Il processo arrivò fino in Cassazione, e nel 2022 la condanna divenne definitiva: trent’anni di carcere per omicidio volontario aggravato. Un verdetto che, sulla carta, sembrava chiudere il cerchio della giustizia. Ma sulla carta, appunto.
Dalla cella alla casa: la pena che si alleggerisce
Fricano, oggi trentottenne, quei trent’anni non li ha mai veramente scontati. Dopo appena sette anni di carcere, il Tribunale di Sorveglianza ha nuovamente disposto per lui gli arresti domiciliari. Una misura già concessa nel 2023 per motivi di salute: l’uomo soffre di grave obesità, e secondo i giudici il regime carcerario non sarebbe compatibile con il suo stato fisico.
È stato quindi trasferito a Biella, dove vive con i genitori. Ha l’obbligo di sottoporsi a cure mediche e tre ore al giorno di libertà, durante le quali può uscire di casa. La giustizia italiana lo considera ancora un condannato, ma nei fatti Fricano oggi conduce una vita che di detenzione ha ben poco.
Il dolore dei genitori di Erika e la ferita che non si chiude
I genitori di Erika Preti, che vivono a pochi chilometri da quella stessa casa dove ora Fricano sconta la pena, avevano già reagito con rabbia alla prima concessione dei domiciliari. Oggi, la notizia del nuovo provvedimento riapre un dolore che non si è mai davvero chiuso. Per loro, come per molti italiani, la decisione è un insulto: un messaggio distorto secondo cui il corpo del colpevole pesa più della vita della vittima.
Il padre di Erika lo aveva detto chiaramente quando Fricano tornò a casa per la prima volta: «Perché lui sì, e mia figlia no?». Una domanda che risuona ancora oggi, mentre l’assassino della loro figlia può curarsi nel comfort familiare, e la giustizia sembra incapace di difendere la memoria di chi non c’è più.
Il paradosso del sistema penale
Ci si chiede, davanti a vicende come questa, quale sia la funzione reale della pena. Se bastano sette anni – meno di un quarto della condanna – e una diagnosi medica per svuotare il carcere, che senso ha pronunciare trent’anni? Il problema non è la pietà verso la malattia, ma la sproporzione tra il delitto e la risposta dello Stato.
Un uomo che ha inflitto cinquantasette coltellate a una ragazza di vent’anni non è “un caso sanitario”: è un assassino condannato in via definitiva. Eppure, a ogni passaggio, la rigidità della legge si piega alla flessibilità del garantismo più debole, quello che confonde i diritti del detenuto con l’oblio della vittima.
Una giustizia sempre più malata
Il ritorno ai domiciliari di Dimitri Fricano è un simbolo. Racconta un’Italia in cui le pene si sciolgono come neve al sole, in cui la giustizia perde forza davanti al pretesto medico, in cui la parola “fine” non arriva mai per davvero. Erika Preti non avrà un’altra estate, non un’altra casa, non un’altra possibilità. Lui sì.
E allora, mentre il Tribunale firma un provvedimento che sembra più una resa che una decisione, resta un’unica domanda: quanto vale oggi la vita di una vittima, se basta qualche certificato per tornare a respirare aria di libertà?


















