Lo scontro con Carlotta Vagnoli
Nuovo capitolo nello scontro tra Selvaggia Lucarelli e Carlotta Vagnoli, dopo che la giornalista ha pubblicato — per prima — i contenuti della famigerata chat “Fascistella”, in cui alcune attiviste femministe si scambiavano commenti violenti e diffamatori su personaggi pubblici.
Vagnoli non l’ha presa bene: ha accusato la Lucarelli di essere una “fascista”, spiegando che “usa metodi illeciti per punire i nemici a mezzo stampa”. Una definizione dura, ma che fotografa bene la sensazione di molti: quella di una giornalista che da tempo ha oltrepassato il confine tra informazione e regolamento di conti.
La difesa di Lucarelli: “interesse giornalistico” o spettacolo mediatico?
Lucarelli liquida parlando di “interesse giornalistico”. Secondo lei, il valore della pubblicazione risiederebbe nel denunciare “la totale incoerenza tra l’immagine pubblica che queste persone hanno costruito di loro stesse e la negazione di quell’immagine appena si chiude il sipario pubblico”.
Un argomento che suona nobile — ma che si presta a un interrogativo inevitabile: si tratta davvero di giornalismo d’inchiesta o di una nuova forma di spettacolarizzazione dell’odio reciproco?
Lucarelli sembra voler incarnare la paladina della trasparenza, ma la modalità resta quella di un processo pubblico: si pubblicano chat private, si individuano i “colpevoli”, e si lascia al web il compito di condannarli. È giornalismo o un moderno linciaggio mediatico travestito da indagine morale?
La gogna digitale: “call out” e contraddizioni
La stessa Lucarelli, nell’intervista, accusa la Vagnoli di aver tentato di creare “un account all’estero per organizzare call out in forma anonima” — cioè campagne digitali coordinate per distruggere la reputazione altrui.
Ma qui scatta la contraddizione: la giornalista denuncia la “gogna femminista”, ma ne riproduce i meccanismi. Espone nomi, scredita pubblicamente, chiama i suoi follower come testimoni e giudici. Il metodo è lo stesso che condanna, solo con un’etichetta diversa.
E mentre accusa le sue avversarie di “macchina del fango”, ne utilizza una personale, altrettanto potente e raffinata: quella del consenso mediatico, dei like e dei titoli gridati.
Il paradosso del moralismo mediatico
C’è un paradosso nel modo in cui Lucarelli gestisce le sue battaglie: denuncia la tossicità dei social, ma ne è pienamente figlia. Smaschera le contraddizioni altrui, ma raramente si concede il lusso dell’autocritica.
Nelle sue parole tutto è bianco o nero: i “cattivi” da esporre, i “giusti” da difendere — e, immancabilmente, se stessa come misura della verità. Ma il giornalismo, quello vero, è un’altra cosa: verifica, contesto, dubbio. Tutte qualità che nel suo racconto, ormai, sembrano evaporate.
Quando la battaglia diventa branding
Il caso “Fascistella” è solo l’ultimo episodio di una lunga serie in cui Selvaggia Lucarelli riesce a far convergere due mondi che dovrebbero restare separati: quello dell’informazione e quello del personal branding.
Ogni scontro diventa contenuto, ogni polemica una moneta di scambio per restare al centro della conversazione. E più il tono è alto, più il seguito cresce.
La sua battaglia contro le “false femministe” diventa così una nuova forma di spettacolo: uno show morale in cui lei è insieme conduttrice, giudice e pubblico plaudente.
Conclusione: chi controlla i controllori
Lucarelli ha ragione quando dice che le chat “Fascistella” mostrano incoerenza e ipocrisia. Ma nel momento in cui trasforma la denuncia in uno strumento di potere personale, la sua stessa credibilità si incrina.
La domanda, allora, non riguarda più Carlotta Vagnoli o le attiviste coinvolte: riguarda Selvaggia Lucarelli stessa.
Chi vigila su chi?
Chi smaschera la smascheratrice?


















