Il caso
Paolo Piccolo aveva solo 26 anni. È morto dopo dodici mesi di coma, conseguenza di un violento pestaggio subito nel carcere di Bellizzi Irpino, in provincia di Avellino. Era detenuto per reati minori, ma quella notte, nel 2024, è diventato il bersaglio di una spedizione punitiva.
Fu soccorso in condizioni disperate e trasferito all’ospedale Moscati di Avellino, dove da allora è rimasto in coma fino al giorno della morte, nell’ottobre 2025.
Un anno sospeso, in cui la famiglia ha chiesto verità, assistenza e giustizia. Un anno di silenzi, in cui le istituzioni si sono nascoste dietro burocrazie e rimpalli di responsabilità.
Un pestaggio che grida vendetta
Secondo le prime ricostruzioni, Paolo fu aggredito da altri detenuti nella sua sezione. Colpito con violenza, riportò lesioni gravissime al cranio, al torace e agli organi interni.
L’inchiesta della procura ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di diversi reclusi, accusati di tentato omicidio e sequestro di persona. Ma dopo un anno, la verità è ancora lontana.
Nel frattempo, Paolo è rimasto immobile in un letto d’ospedale, prigioniero due volte: del suo corpo e di un sistema che non ha saputo proteggerlo.
Il fallimento dello Stato
Il carcere avrebbe dovuto garantire custodia, non violenza.
Ma in Italia, troppo spesso, le carceri sono luoghi dove la dignità umana smette di valere. Celle sovraffollate, personale insufficiente, abusi coperti, malati psichiatrici senza cure.
Ogni anno decine di detenuti muoiono tra le mura dello Stato: suicidi, pestaggi, “malori improvvisi”. E ogni volta, lo Stato si limita a contare i morti.
Quella di Paolo Piccolo non è un’eccezione: è la regola.
Un sistema che punisce senza rieducare, che abbandona chi dovrebbe reinserire, che trasforma la pena in tortura.
Una ferita per la società
La morte di Paolo Piccolo non riguarda solo il carcere: riguarda tutti noi.
Ogni volta che accettiamo il silenzio, ogni volta che un detenuto viene umiliato, picchiato o dimenticato, lo Stato perde un pezzo della propria civiltà.
La Costituzione parla chiaro: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.
Ma nei penitenziari italiani la parola “rieducazione” è una barzelletta amara.
Che schifo
Paolo Piccolo è morto dopo dodici mesi di coma, vittima di una violenza che lo Stato non ha saputo impedire e di un sistema che non ha voluto curare.
Aveva 26 anni, e doveva avere ancora un futuro.
Le carceri italiane restano ciò che di statale è peggiore: un simbolo di vergogna, di abbandono, di disumanità.
Che schifo il carcere italiano. Che vergogna per un Paese che si definisce civile.