Due auto distrutte da una bomba. È successo nella notte a Sigfrido Ranucci, giornalista e conduttore di Report. Un ordigno è esploso sotto la sua macchina, a Pomezia, devastando anche quella della figlia. Nessun ferito, ma poteva finire in tragedia. E già questo, in un Paese che si definisce democratico, dovrebbe bastare a scuotere le coscienze.
La solidarietà di chi non tollera il giornalismo d’inchiesta
La premier Giorgia Meloni ha espresso “piena solidarietà” a Ranucci e “ferma condanna per l’atto intimidatorio”. Parole giuste, doverose, ma che suonano fragili se pronunciate da chi, solo pochi mesi fa, vedeva il proprio capo di gabinetto querelare Report per un’inchiesta sgradita.
Non è un dettaglio. È un segnale. Perché la libertà di stampa non si difende a colpi di comunicati, ma accettando che i giornalisti facciano domande scomode, indaghino sui poteri e portino alla luce ciò che chi governa preferirebbe restasse nell’ombra.
Quando la critica diventa intimidazione
In passato, anche Arianna Meloni, sorella della premier, ha duramente attaccato Report per aver mandato in onda le conversazioni tra il ministro Sangiuliano e la moglie. Ha parlato di “vergogna”.
Ma se la politica inizia a decidere cosa si può o non si può mostrare, dove finisce il diritto di cronaca?
Ogni querela, ogni dichiarazione di disprezzo verso un giornalista, è un colpo alla libertà di stampa.
E ogni volta che un ordigno esplode sotto la macchina di chi fa inchieste, esplode anche il velo di ipocrisia di chi proclama “solidarietà” ma alimenta un clima di sospetto e delegittimazione.
Un Paese che ha paura della verità
L’Italia ama definirsi “una democrazia matura”. Ma quando chi racconta il potere viene minacciato, isolato o attaccato, quella democrazia mostra le sue crepe più profonde. La libertà di stampa non è un favore concesso: è un diritto costituzionale.
E chi oggi governa, se davvero vuole difenderla, deve iniziare col garantire tutele reali ai giornalisti sotto minaccia e smettere di usare le querele come arma politica.
Noi stiamo con chi racconta, non con chi tace
Chi mette una bomba sotto l’auto di un giornalista vuole silenzio. Ma il silenzio è la morte della democrazia.
Oggi, più che mai, stare con Ranucci significa stare con la libertà.
E chi governa, prima di scrivere post di solidarietà, dovrebbe ricordare che la libertà non si proclama: si pratica, ogni giorno, accettando anche le domande più scomode.
Perché la stampa libera non è contro il potere: è ciò che lo rende legittimo.