Donald Trump lo voleva, eccome se lo voleva.
Negli ultimi mesi Trump aveva trasformato la corsa al Premio Nobel per la Pace 2025 in una sua personale campagna elettorale. Post trionfali, interviste studiate, autoproclamazioni da “uomo di pace” — tutto per far credere che bastasse la propaganda per meritarsi il premio più prestigioso del mondo.
Ma il Comitato norvegese del Nobel, a quanto pare, non si è fatto incantare dal solito show.
Ha scelto un’altra storia: quella di María Corina Machado, simbolo di coraggio civile, oppositrice del regime venezuelano e voce libera in un Paese dove parlare può costarti la libertà — o la vita.
Il Nobel che Trump si era già assegnato da solo
Trump si era messo al centro della scena come se il premio gli spettasse di diritto.
Aveva rivendicato presunti meriti diplomatici, evocato trattati mai davvero compiuti e — tra un comizio e l’altro — suggerito che negarglielo sarebbe stata un’ingiustizia storica.
Insomma, il solito copione: narcisismo travestito da missione umanitaria.
Ma il Nobel non si compra con un post o un sorriso forzato davanti alle telecamere.
E stavolta, il messaggio arrivato da Oslo è chiarissimo: la pace non è uno slogan, è sacrificio.
La vittoria di Machado: il coraggio contro il cinismo
María Corina Machado ha rappresentato l’esatto opposto di Trump. Mentre lui collezionava like, lei collezionava minacce. Mentre lui twittava promesse di pace, lei rischiava la prigione per chiedere libertà. Mentre lui cercava applausi, lei cercava giustizia.
Il suo Nobel non è una vittoria mediatica, ma una restituzione di dignità alla lotta democratica.
Un riconoscimento al coraggio di chi crede nella politica come servizio, non come spettacolo.
Il messaggio del Comitato
La decisione non è solo simbolica. È un pugno sul tavolo. Il Comitato ha ricordato che il premio va a chi costruisce ponti reali, non palchi elettorali. In tempi di guerra, di leadership gonfie e di influencer travestiti da statisti, la scelta di Machado suona come una risposta diretta all’arroganza di chi confonde la pace con l’autopromozione.
Finale deludente per il tycoon
Alla fine, la scena si chiude così: Trump, convinto di avere già la corona, costretto a guardare da lontano una donna che, con molto meno rumore e molta più sostanza, gli ha portato via il trofeo che si era già messo in bacheca.
Non serve un genio della comunicazione per leggere il sottotesto: il Nobel per la Pace non è un premio per chi vuole apparire buono, ma per chi fa del bene, anche quando nessuno guarda.
E, quest’anno, la pace ha scelto la sostanza, non lo spettacolo.