Alla Casa Bianca non è uscita la fumata bianca, ma neppure quella nera: è arrivata la più diplomatica delle fumate, quella grigia. Donald Trump, nella sua quarta stretta di mano dell’anno con Benjamin Netanyahu, ha costretto il premier israeliano a una scena che sembrava fantapolitica: scusarsi con il Qatar per i raid a Doha contro Hamas. Una telefonata che, per gli equilibri mediorientali, vale come una seduta psicanalitica collettiva.
Il “piano di pace” americano è lungo venti punti e sembra un contratto di condominio internazionale: ostaggi dentro, prigionieri fuori, residui restituiti con cambio multiplo (uno israeliano per quindici gazawi), stop ai bombardamenti, e un comitato tecnico chiamato a gestire acqua, fogne e panifici. Sopra tutto, il “Board of Peace”, presieduto da Trump in persona, con l’aiuto di Tony Blair — l’uomo che da decenni spunta sempre quando c’è un tavolo da mediazione, come il prezzemolo nei piatti della mensa ONU.
Hamas, ovviamente, ha risposto con un secco no: “accettiamo un comitato neutrale, ma niente tutori stranieri”. Tradotto: i tecnocrati va bene, Trump e Blair meno. E se c’è da discutere di resistenza, al-Nunu non ha dubbi: “finché c’è occupazione, ci saranno armi”. Un linguaggio che non trova spazio nei powerpoint americani, ma che a Gaza è ancora realtà.
Sul fronte israeliano, invece, Netanyahu ha dovuto incassare il pressing americano: niente annessioni della Cisgiordania, niente raid improvvisati sugli alleati, niente fughe in avanti. La destra israeliana storce il naso, mentre Trump, tra una promessa di “pieno appoggio” e un vago accenno al Nobel, fa il regista del copione.
La comunità internazionale ha risposto con il consueto coro coordinato: Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Emirati e altri hanno applaudito l’iniziativa americana, pronti a “cooperare positivamente”. L’Autorità Palestinese, a sorpresa, ha definito “sinceri e determinati” gli sforzi di Trump, mentre la Jihad Islamica ha bollato tutto come “ricetta per incendiare la regione”.
Intanto, le famiglie degli ostaggi parlano di “accordo storico” e ringraziano Trump come fosse il Mosè della diplomazia: “dopo due anni di angoscia, ecco il nostro punto di svolta”.
Sul terreno, però, Gaza continua a bruciare: Al Jazeera conta decine di morti solo dall’alba. Il contrasto tra la carta patinata del piano americano e il fumo nero che sale dalla Striscia resta la fotografia più crudele della situazione.
Il paradosso è tutto qui: Trump immagina una Gaza riqualificata come una zona economica speciale, una specie di Dubai con i panifici funzionanti, mentre Hamas ribadisce che le armi restano “fino alla liberazione”.
Fumata grigia, appunto: un colore sospeso tra pace e guerra, tra business plan e tragedia quotidiana.
La distanza tra la brochure di Trump e il fumo nero che sale dalla Striscia resta l’immagine più eloquente: un piano da convention, con tanto di bonus di rilascio e clausola di garanzia, che prova a vendere la pace come fosse un resort all inclusive.
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