Vent’anni fa bastava una direttiva e qualche aggiornamento. Oggi, dopo montagne di regolamenti digitali, l’Europa si ritrova al punto di partenza: la privacy, il consenso, i cookie. E proprio il GDPR, fino a ieri considerato sacro, ora rischia di essere smontato pezzo per pezzo.
Con il suo report presentato un anno fa, Mario Draghi ha rotto un tabù: rivedere le regole che hanno fatto dell’Europa il paladino mondiale della protezione dei dati. Nel mirino non ci sono solo la direttiva ePrivacy e i famigerati banner dei cookie, ma l’intero equilibrio tra diritti degli utenti e interessi delle imprese.
La Commissione europea ha aperto una consultazione che si chiuderà il 14 ottobre. Obiettivo ufficiale: ridurre la burocrazia, alleggerire i costi per le aziende e combattere la “consent fatigue”. Tradotto: meno banner, meno clic, più fluidità. Dietro le quinte, però, si gioca una partita molto più sporca: chi controllerà davvero il mercato dei dati?
Perché se i consensi finiscono nei browser, significa che a gestire la nostra privacy saranno Google, Apple e Microsoft, non Bruxelles. E se la base legale del “legittimo interesse” prende piede, significa che le aziende potranno tracciare senza chiedere, salvo poi offrirci l’illusione di poter disattivare. Il rischio è che, in nome della semplificazione, l’Europa regali un vantaggio definitivo ai gatekeeper che già dominano la pubblicità digitale.
Gli inglesi, fuori dall’Unione, hanno scelto la via pragmatica: via i banner quando ci sono solo cookie tecnici. I danesi spingono nella stessa direzione. Ma non è di pragmatismo che si tratta: è di potere. E il potere, nel 2025, passa ancora dalla gestione dei dati.
Intanto in Italia il Garante è chiamato a decidere sul modello dei giornali: o accetti la profilazione, o paghi un contributo. Una scelta che pesa non solo sulla privacy dei lettori, ma sul futuro di un’editoria che cerca disperatamente nuove entrate.
Il paradosso è servito: l’Europa voleva blindare i cittadini contro lo strapotere digitale, e ora rischia di consegnarli a Big Tech con il timbro della legalità.
Addio GDPR, benvenuto caos: non è più una guerra tra utenti e pubblicità, ma tra chi scrive le regole e chi le usa per dominarci.