È morto Emilio Fede.
Non un direttore qualsiasi, ma il patriarca di un modo di fare informazione che ha plasmato un’epoca e che oggi, purtroppo o per fortuna, continua a camminare con gambe più giovani.
Fede è stato il padre del giornalismo schierato, dichiaratamente militante, quello che non si vergognava di servire un padrone e anzi lo rivendicava come un titolo di merito. In un’Italia dove i direttori amavano travestirsi da giudici o da filosofi, lui ha scelto la via più sincera: era un soldato. Niente mezze misure, niente infingimenti.
La sua eredità non è nei servizi d’archivio né nelle sigle dei telegiornali, ma in una postura che resiste. Oggi basta accendere un talk show, aprire un quotidiano o scrollare un feed social per vedere i tanti “figli di Fede” all’opera: conduttori trasformati in attivisti, opinionisti mascherati da cronisti, giornali che sembrano volantini di partito con più pubblicità.
Fede ci lascia, ma il fedeismo resta. Ha insegnato che il giornalismo non è solo raccontare, ma soprattutto scegliere da che parte stare, e poi costruirci sopra una narrazione granitica, impermeabile ai fatti. Una scuola che oggi sembra prosperare più che mai.
In fondo, la sua vita è stata una parabola perfetta dell’Italia contemporanea: dalla seriosità del Tg1 ai brindisi del Tg4, dalla cronaca al varietà politico, fino all’icona trash. Ha attraversato il giornalismo come un attore attraversa i generi: drammatico, comico, grottesco.
Lo salutiamo senza ipocrisia: Emilio Fede non era amato da tutti, ma è stato specchio fedele del Paese. Un Paese che non smette mai di scegliere tifoserie al posto delle notizie, bandiere al posto delle domande.
E forse, più che un addio, il suo è un arrivederci. Perché basta accendere la tv, domani, per ritrovarlo: non in volto, ma nello spirito che aleggia su gran parte dell’informazione italiana.