«Rivendico la maggioranza delle operazioni immobiliari. Se adesso a Milano è venuta tutta di colpo la paura dei grattacieli, io mi dissocio.»
Parole di Beppe Sala, sindaco di Milano. Che suonano come uno slogan da brochure, di quelli pensati per un convegno sull’innovazione urbana: pulite, arroganti, vendibili. Ma dentro ci scorre tutta l’ambiguità del nostro tempo. Non è una giustificazione. È un atto di proprietà, quasi notarile. Una firma sul cemento. Una dichiarazione di dominio.
Milano è cambiata, dice. Certo. Ma per chi? Mentre rivendica torri, skyline, rigenerazioni, la città si svuota ai piani bassi.
I bar chiudono alle 19, i cortili diventano silenziosi, gli affitti ingoiano interi stipendi. I vecchi quartieri si piegano come cartoline stinte, svuotati di storie, ristrutturati solo nel senso immobiliare del termine. E il milanese — quello vero, quello che resisteva alle nebbie, al traffico e alla nostalgia — si rifugia altrove. In Brianza, in Oltrepo, in basso. Espulso da una città che ha barattato l’identità per un render in 3D con tanto di luce dorata e alberi sospesi.
Chi ha paura dei grattacieli, dice Sala, è retrogrado. Ma qui nessuno ha paura dell’altezza. La paura è per ciò che non c’è più sotto: la bottega, la scuola pubblica, il portone aperto, il panettiere che conosce il nome del bambino.
La città verticale non è un crimine, no. Diventa un problema quando si fa ideologia, quando si spaccia per “futuro” un’operazione di marketing immobiliare, quando la speculazione diventa vangelo urbano, e ogni vuoto — ogni possibile spazio comune — viene colonato da vetro e acciaio, in nome di un progresso che esclude.
E poi c’è quella frase. Così secca. Così violenta, se la si ascolta bene. “Io mi dissocio.”
Dissociarsi da cosa? Dalla paura? O dal popolo che la prova? Perché, nel dirlo, Sala non fa solo chiarezza: si tira fuori, si chiama fuori dalla città reale, quella che vive, respira e fatica. La città che non viene invitata agli aperitivi panoramici. Quella che non va in terrazza.
È un gesto simbolico potente, e forse involontario: una rottura netta tra chi abita e chi amministra, tra chi sogna ancora una Milano a misura umana, e chi ha deciso che la misura è solo quella del ROI, del PIL, della torre più alta.
È strano. Quasi inedito. La maschera è caduta? O forse non c’è mai stata. Forse siamo noi ad aver confuso il manager elegante con il sindaco.
Il tono rassicurante con la politica. Il linguaggio da TEDx con l’amore per una città.
Ma ora è tutto chiaro. La Milano di Sala non è per tutti. È per chi può comprarla, scalarla, rivenderla.
Gli altri? Possono guardarla crescere da sotto, oppure uscire in silenzio, come tanti hanno già fatto. Non c’è posto per chi chiede solo di restare.