Shein non vende vestiti. Vende FOMO. Vende urgenza, illusione, scarsità artificiale. “Ultimi 3 pezzi!” “Solo per oggi!” “Questo articolo è nel carrello di 647 persone!” Tutto progettato per farti credere che devi comprare adesso o non avrai mai più l’occasione.
Non compri perché ti serve. Compri perché qualcun altro potrebbe farlo prima di te.
Poi, una volta che hai cliccato, ti tranquillizzano. Ti dicono che stai facendo la cosa giusta. Che quel top a 4,99 euro è “eco-friendly”. Che il poliestere è “riciclato”. Che stai aiutando l’ambiente comprando 12 capi alla settimana.
E così, mentre ti avvelenano la logica, ti vendono anche una coscienza pulita. L’Antitrust, finalmente, si è accorto della truffa verde e ha multato Shein per un milione di euro. Motivazione: messaggi ambientali ingannevoli. Greenwashing, per gli amici della modernità.
Far credere che un sistema strutturalmente insostenibile sia invece sostenibile, solo perché qualcuno ha colorato il sito di verde menta e messo un alberello nel footer.
Ma il punto è che un milione di euro a Shein fa ridere. Fa ridere gli avvocati. Fa ridere gli investitori. Fa ridere pure l’algoritmo.
Shein quella cifra la genera in una mattinata qualsiasi, mentre processa pacchi da 300 grammi e li spedisce in 48 ore da Shenzhen a Pavia, passando per il nulla. La sanzione dell’Antitrust non è una condanna. È un buffetto sulla guancia. Una nota sul diario di uno studente che ha già comprato il preside.
Il greenwashing non è un effetto collaterale del sistema. È il sistema. È la nuova lingua ufficiale del capitalismo gentile, quello che ti dice “ti voglio bene” mentre ti svuota il conto e riempie il pianeta di plastica.
E intanto, chi ci casca? Tutti. Persino chi lo sa. Perché è comodo. Perché è facile. Perché costa poco. Perché almeno, se dobbiamo affondare, meglio farlo vestiti bene (e a buon prezzo).