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18.000 Stasi in galera. Non sono Alberto,non sono neanche condannati ma il dramma è lo stesso.

Mentre il caso di Garlasco e del condannato Alberto Stasi riempie le pagine dei giornali e i salotti televisivi, sollevando dibattiti appassionati sulla sua colpevolezza o innocenza, dietro le sbarre si consuma un’ingiustizia silenziosa. Sono oltre 18.000 le persone che, come Stasi in un certo periodo del suo percorso giudiziario, vivono la stessa condizione: sono detenuti in attesa di una sentenza definitiva, privati della libertà senza una condanna. La loro storia non fa notizia, i loro nomi non sono sui giornali, ma la loro sofferenza e la violazione della presunzione d’innocenza sono identiche. Non sono personaggi famosi, ma volti sconosciuti, madri, padri, figli e figlie a cui è stata strappata la vita in nome di un sistema che, troppo spesso, punisce prima di giudicare. Questo articolo vuole accendere un faro su queste esistenze invisibili, per ricordare che la giustizia non può misurarsi solo sulla notorietà dei casi.

Sulla presunzione d’innocenza: una questione di giustizia da affrontare

Questo fenomeno non è solo una questione statistica, ma tocca il cuore stesso della nostra idea di giustizia, arrivando a sfiorare casi che hanno fatto la storia del nostro Paese. Un sistema che imprigiona preventivamente un così gran numero di persone rischia di perdere la sua credibilità, diventando un’istituzione che punisce prima di accertare la colpevolezza. La detenzione cautelare, sebbene in alcuni casi sia una misura necessaria, sembra essere diventata una pratica diffusa che contribuisce al sovraffollamento carcerario e ai ritardi processuali.

Esempi eclatanti di questa ingiustizia ci ricordano la fragilità del sistema. La vicenda di Enzo Tortora, il celebre conduttore televisivo arrestato nel 1983 con l’accusa di associazione camorristica basata esclusivamente sulle dichiarazioni di alcuni pentiti, è un monito indelebile. Dopo una detenzione di oltre sette mesi, fu assolto in appello con formula piena, ma la sua vita e la sua carriera ne furono irrimediabilmente segnate. Un altro caso, ancora più drammatico per la durata, è quello di Giuseppe Gulotta, condannato all’ergastolo a soli 18 anni per un duplice omicidio. Dopo 22 anni trascorsi in carcere, fu riconosciuto innocente in seguito a un processo di revisione che rivelò le torture subite per estorcergli una confessione.

È fondamentale avviare una riflessione seria e profonda su come riequilibrare questo sistema. Da un lato, è necessario snellire i processi e ridurre i tempi della giustizia, per garantire che il giudizio arrivi in tempi ragionevoli. Dall’altro, è cruciale rivedere le modalità di applicazione della detenzione preventiva, rendendola una misura eccezionale e non la norma.

La stima di migliaia di “innocenti in cella” non è un’esagerazione mediatica, ma una triste realtà basata sulla percentuale di persone che in seguito vengono assolte o prosciolte. Riscoprire il valore della presunzione d’innocenza è il primo passo per costruire un sistema giudiziario che sia davvero equo, giusto e rispettoso dei diritti umani.

“È sempre meglio avere un colpevole fuori che un innocente in galera.”

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