L’accordo sui dazi è come l’Armata Potëmkin, lo direbbe Fantozzi. Una parata grottesca che ci vogliono spacciare per trionfo. La realtà? Gli Stati Uniti potranno esportare in Europa a dazio zero. In cambio, l’Europa si è impegnata ad acquistare la loro energia carissima e – dulcis in fundo – le loro armi. E noi, poveri fessi, potremo esportare con un’aliquota del 15%. Un capolavoro strategico da Nobel all’incontrario.
Ci raccontano che è un “risultato”. Ma è come vendere la casa per comprarsi la porta. Il tutto con l’aggravante di chi ti dice che ti sta facendo un favore. La verità è che abbiamo abbandonato qualsiasi postura autonoma in cambio di un posto a tavola – da spettatori, non da commensali. Siamo governati da chi baratta la nostra sovranità industriale con qualche applauso a Washington, una stretta di mano nelle foto ufficiali e un buffet al G7.
Non è solo questione di dazi. È una dinamica culturale. Una postura coloniale che si è ormai fatta sistema. Chi dovrebbe negoziare in nome nostro sembra più preoccupato di non disturbare il manovratore. Di non apparire “ostile”. Di non rovinare il clima. E così, mentre loro incassano, noi archiviamo anche l’ultima parvenza di dignità economica.
I difensori d’ufficio ci spiegano che abbiamo evitato il peggio. Ma il peggio è proprio questo: una classe dirigente che considera normale cedere, pur di non confrontarsi. Che accetta la subalternità come unica via possibile. Che chiama “realismo” quello che, in altri tempi, sarebbe stato chiamato servilismo.
E in Italia? C’è chi continua a recitare la parte dell’attrice protagonista sul palco internazionale. Ogni settimana una dichiarazione sulla “centralità” ritrovata. Ma dov’è questa centralità? Nei sorrisi di circostanza? Nella firma in calce a un documento deciso da altri? Nella totale assenza di voce nei dossier che contano? La verità è che siamo comparse. E neanche le più credibili.
Ci avevano promesso una nuova stagione di orgoglio e protagonismo. Abbiamo ottenuto invece un’adesione entusiasta al ruolo di partner minore, pagante e silenzioso. E chi si azzarda a sollevare dubbi viene tacciato di antiamericanismo o disfattismo. Ma non si tratta di essere “contro” qualcuno. Si tratta di essere “a favore” di noi stessi.
Se questo è essere protagonisti, allora sì: meglio fare le comparse. Almeno non si firma la resa mascherata da accordo storico. E non si applaude mentre ci tagliano l’ossigeno.