Hanno fatto bene. Quegli studenti che alla maturità sono rimasti zitti, immobili, muti come statue davanti a una commissione che chiede risposte in un teatro ormai fatiscente. Hanno fatto bene perché non c’era nulla da dire. Nulla da confermare. Nessuna verità da recitare.
La maturità è diventata una liturgia vuota, una pantomima di sapere in un Paese dove i voti sono monete false, dove le eccellenze si misurano in parentele, e il merito è una barzelletta stanca che non fa più ridere nessuno. Perché poi apri il giornale e leggi che il figlio della seconda carica dello Stato è presidente dell’ACI.
A cosa serve, allora, il famoso “pezzo di carta”? Quel titolo che, al netto delle illusioni, oggi non garantisce nulla. Non un lavoro. Non un futuro. Non un minimo di dignità economica. È questa la verità. Fino agli anni ’60, con un diploma riuscivi almeno a entrare in un ufficio, a diventare impiegato. E con fortuna, carriera e tanto leccaculismo, potevi persino fare il grande manager. Ma dagli anni ’80 in poi quella piccola borghesia del “mutuino” e della seconda casetta ad Alassio ha iniziato a evaporare. Si è trasformata. Ha perso centralità. Negli anni ’90 la scuola ha cominciato a staccarsi completamente dal mondo reale, dal lavoro, dalla vita vera. Il risultato? Oggi ci ritroviamo con eserciti di diplomati che sono solo potenziali follower, ex studenti trasformati in fuffaguru, venditori di corsi inutili, esperti di niente.
I voti… davvero servono? Per cosa? Per legittimare chi? L’istruzione, se vuole avere un senso, deve essere istruzione alla curiosità, all’indipendenza di pensiero. Eh sì, perché per tutto il resto – volenti o nolenti – c’è ChatGPT. E nessuno può più negarlo. Eppure viviamo ancora in un sistema che vieta lo smartphone a scuola, lo demonizza come se fosse Satana in formato tascabile, e trasforma questa censura in una narrazione pedagogica, con la solita etichetta imbellettata: “educazione al digitale”. Ma non è educazione. È repressione. Repressione digitale. Questione linguistica, certo. Ma il linguaggio è il primo strumento del potere.
La scena muta è stato il gesto più politico e radicale di questa maturità. Altro che insuccesso. È stato un vaffanculo silenzioso a un sistema feudale travestito da democrazia.
Fanno quasi tenerezza quelli che, come impavidi cavalieri della pedagogia, si indignano nei talk e sui social. “Vergogna!”, “Serve rispetto!”, “Così si distrugge la scuola!”. Ma voi, sinceramente: che cazzo ci avete fatto con quel diploma che difendete con tanto ardore? La ricotta. Avete fatto la ricotta.
Qui non serve andare in mezzo alla strada o scarabocchiare la Gioconda per sentirsi politici. La politica vera, oggi, è togliere legittimità. È svuotare di senso. È alzare le spalle, fare scena muta, voltarsi e dire: non ci casco più. Perché il futuro lo hanno rubato a noi, e lo stanno fottendo pure a voi. L’unica forma di resistenza che resta è il disincanto. E questi ragazzi lo stanno maneggiando meglio di quanto chiunque si aspettasse.
Il nuovo medioevo non ha castelli, ha uffici pubblici. Non ha scettri, ha raccomandazioni. Non ha vassalli, ha dirigenti figli di dirigenti. E quei ragazzi, zitte e zitti, lo hanno denunciato meglio di mille editoriali indignati. Non hanno detto nulla. Eppure hanno detto tutto.