C’è qualcosa nell’aria di Los Angeles che sa di déjà vu. Sporco, sudato, feroce. Un odore denso di fumo, sudore e sirene. Come se il 1992 non fosse mai finito. Come se la pellicola dei riot di South Central si fosse inceppata in un loop eterno. Stessa città, stesso incubo. Solo che adesso il mondo lo guarda in HD, ma non lo ascolta.
Come se tutti, oggi, fossero diventati Rodney King. Ma senza telecamere, senza processo, senza pietà. Senza Larry King, senza CNN, senza nemmeno lo spazio per un hashtag.
In queste ore la California è una pentola a pressione con il coperchio saldato. Cortei pro-immigrazione sfilano da Sacramento a San Diego, ma è a Los Angeles che il tappo è saltato. Oltre 150 persone arrestate: studenti, mamme, rider, non attivisti — ma vite stanche di essere usate come carburante. Le piazze si riempiono di slogan, le strade di lacrimogeni. Il volto della protesta non ha un colore preciso, ma parla tante lingue. Spagnolo, inglese stanco, criolo, a volte silenzio.
E come sempre, quando la tensione sale, arriva lui: Donald Trump, ancora una volta in uniforme da comandante in scena, che giura di voler evitare una guerra civile, ma schiera la Guardia Nazionale come se stesse girando il sequel di Apocalypse Now.
“Non voglio una guerra civile”, dice. “Ma senza un intervento deciso, la città sarebbe stata rasa al suolo.”
Non una parola su perché la città stia esplodendo. Solo la promessa di spegnerla.
Nel frattempo, mentre le strade bruciano di rabbia, i palazzi eleganti di Londra ospitano una diplomazia distratta:
delegazioni americane e cinesi si incontrano per discutere di dazi, come se non sapessero che il vero prezzo da pagare non è sulle merci, ma sulle persone. Una trattativa tra due imperi in campo neutro, mentre nelle periferie del mondo reale le vite continuano a valere meno di un voto.
Perché il punto non sono i dazi. E non sono nemmeno le barricate. Il punto è che Los Angeles sta rivivendo il trauma degli anni Novanta, ma con un cast aggiornato e nessun regista.
Allora c’erano i riot dopo il verdetto Rodney King. Oggi c’è una rabbia più subdola, più sottile, più quotidiana. Una folla invisibile che spinge per essere vista, ma che viene etichettata come “minaccia alla stabilità”. Immigrati, precari, senzatetto col diploma, giovani senza cittadinanza né cittadinanza emotiva. Se protestano, diventano criminali. Se tacciono, diventano numeri.
È la versione 3.0 del caos. Con la stessa rabbia, ma nessuna colonna sonora rap. Con la stessa ingiustizia, ma senza una videocassetta da mostrare in tribunale. Solo reels che durano troppo poco per contenere un grido.
Rodney King oggi è messicano. È filippino. È haitiano. È donna, trans, minorenne. È un nome scritto male su un badge aziendale.
Non chiede vendetta. Chiede visibilità. Ma non per essere famosi — per essere umani.
E in fondo, non serve più nemmeno il manganello. Per zittire qualcuno, oggi, basta dire che non è rilevante. Che disturba l’ordine pubblico. Che deve tornare produttivo. O sparire.
Ecco perché questa non è solo cronaca. È il sequel di una tragedia mai interrotta, recitata da nuovi attori e diretta dalla solita indifferenza.