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Trieste, la donna nel sacco e i due uomini che la amavano: il caso di Liliana Resinovich tra passioni inquiete, bugie, aborti sussurrati e verità che non tornano

Sette mazzolini di fiori e qualche nastro rosso. È tutto quello che resta nel punto esatto in cui, il 5 gennaio 2022, è stato trovato il corpo di Liliana Resinovich, detta Lilly. Aveva 63 anni. Lavorava in Regione. Da 22 giorni era scomparsa. Il cadavere era rannicchiato in posizione fetale, infilato in due sacchi della spazzatura, con altrettanti sacchetti stretti attorno al collo. Siamo a Trieste, Parco di San Giovanni, via Weiss 21. Una zona di colline e psichiatria, a due passi dall’ex manicomio dove Basaglia cambiò la storia. Ora il bosco è recintato, ma la recinzione è divelta. Ci passano famiglie, curiosi, giornalisti. Una scena da noir che sembra scritta da Scerbanenco, ma è vera. E non torna.

Il triangolo e i tormenti

Liliana viveva con Sebastiano Visintin, fotoreporter in pensione, oggi volto teso e voce addestrata alla difesa. Ma da mesi, segretamente, aveva riallacciato i rapporti con un vecchio amore: Claudio Sterpin, ottantaduenne marciatore triestino, l’“etiope” come lo chiamano in città. Lui dice che Lilly voleva lasciarlo, Visintin. Che ogni martedì lei veniva a stirargli le camicie. Che volevano rifarsi una vita insieme. Ma lei non lo racconta a nessuno. È il suo tormento. E forse anche un possibile movente.

Le ore della scomparsa di Liliana Resinovich

Il 14 dicembre 2021, giorno della sparizione, Liliana esce di casa senza cellulare né borsellino. Telefona a Sterpin per dirgli che passerà più tardi, deve andare in un negozio WindTre. Una verduraia la vede attorno alle 8.30. Poi, silenzio.

Visintin dice di essere uscito alle 7.45, di aver fatto consegne e poi un giro in bici con la GoPro. È un alibi, dice lui. Un depistaggio, dicono altri. Intanto il fratello Sergio rompe gli indugi: accusa, presenta una memoria alla procura. “L’hanno uccisa. Per soldi”.

Il giallo del Dna, la perizia che cambia tutto

Due sacchetti, due nodi al collo. Sul cordino, il Dna di Liliana. Nessuna traccia di Visintin o Sterpin. Si fa strada l’ipotesi del suicidio. La procura chiede l’archiviazione. Ma il gip non ci sta. Arriva la svolta: il caso passa all’anatomopatologa Cristina Cattaneo.

Lei e il suo team ribaltano tutto: “Liliana è morta tra le 9 e le 12 dello stesso giorno. È stata strangolata con una mossa da dietro. E il corpo non è mai stato spostato”. Ma pochi giorni dopo, un tecnico che preparò il cadavere confessa: “Forse ho rotto io la vertebra”.

Un aborto?

In un’intercettazione ambientale, Visintin racconta di aver accompagnato Liliana ad abortire nel 1991. Forse il figlio non era suo, forse di Sterpin. È un pettegolezzo, ma aggiunge fumo. E fumo chiama mistero. Intanto i reperti non spiegano dov’era rimasta Liliana per 22 giorni. Né perché non avesse addosso neppure un euro.

Visintin è ora formalmente indagato. Ma il suo avvocato, Bevilacqua, insiste: “Per me si è suicidata. Se è un delitto, è perfetto”.

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