Sam Altman, CEO di OpenAI, e Jony Ive, profeta del design Apple, hanno appena annunciato qualcosa che sembra un’operazione creativa. Ma è molto di più: è una mutazione industriale, culturale, antropologica. OpenAI e io non stanno solo pensando il futuro: lo stanno costruendo. Già ora. E la sintesi dell’annuncio è chiara: “vogliamo dare forma a una nuova generazione di strumenti intelligenti, progettati per ispirare, abilitare, connettere”.
La fusione tra OpenAI e io — l’azienda fondata da Ive — segna la nascita dell’AI incarnata. E la morte dell’AI “immateriale”.
“io”, minuscolo solo nel nome, è il contenitore perfetto per dare forma a ciò che fino a ieri era puro software. Nata in silenzio un anno fa, da un’idea condivisa da Ive, Scott Cannon, Evans Hankey e Tang Tan, ha raccolto attorno a sé un’élite di ingegneri hardware, fisici, ricercatori, product designer. Gente che lavora insieme da decenni. Gente che ha forgiato gli oggetti che definiscono il nostro tempo.
Il progetto è iniziato due anni fa quasi per gioco, con una collaborazione discreta tra Ive e il team di LoveFrom da una parte, e Sam Altman e il team di OpenAI dall’altra. Un gioco fatto di curiosità, amicizia, visione. Da quelle che sembravano solo suggestioni — “idee importanti, utili, ottimiste, capaci di ispirare” — si è passati a design concreti, pronti a essere prodotti, distribuiti, abitati.
“È un momento straordinario”, scrivono Sam e Jony. E in effetti lo è: i computer vedono, pensano, comprendono. Ma la nostra esperienza, denunciano, è ancora vincolata a prodotti e interfacce del secolo scorso.
Ed è proprio qui che entra in gioco io, ora completamente fusa con OpenAI, per lavorare a una nuova famiglia di prodotti intelligenti. Non più solo AI-as-a-service, ma AI-as-object. Oggetti che ispirano, abilitano, potenziano — e che avranno un ruolo estetico e simbolico, prima ancora che funzionale.
Con questa fusione, Jony Ive e LoveFrom assumeranno la guida creativa su tutta la progettazione visiva, sensoriale e concettuale dei futuri dispositivi. L’intelligenza artificiale non sarà più un algoritmo invisibile, ma una forma, una presenza, un’identità da portare con sé.
Forse ai più questo nome non dice nulla. Lo ribadiamo: Jony Ive non è un designer qualunque. È quello che ha messo in mano al mondo l’iMac, l’iPod, l’iPhone, l’iPad e l’Apple Watch. È lui che ha trasformato la tecnologia in oggetti da desiderare, prima ancora che da usare. Non faceva rumore, ma dettava la linea. E mentre gli altri disegnavano prodotti, lui disegnava il futuro.
Ma anche i visionari si stancano. Dopo la morte di Steve Jobs, Ive si è ritrovato orfano di interlocutori veri. Apple diventava sempre più un’azienda di servizi, più attenta agli abbonamenti che agli oggetti. E lui, che progettava feticci, si è trovato a dover giustificare ogni curva a manager che guardavano solo al margine operativo.
Così ha lasciato. Con eleganza, certo. Ma anche con un bisogno urgente: tornare a disegnare cose che contano.
È nato LoveFrom. E con lui, una seconda vita.
Oggi, con LoveFrom, Jony torna a fare ciò che sa meglio: dare forma a ciò che non ha ancora forma. E l’AI generativa, per ora, è proprio questo: un’intelligenza diffusa, potente, ma priva di identità fisica. Ive può darle un volto. O forse no. Forse le darà un corpo muto, sensoriale, fluido. Qualcosa che sta tra la scultura, l’oracolo e la compagna silenziosa.
Non aspettarti schermi. Non aspettarti pulsanti. Aspettati un oggetto che non sembra nemmeno un oggetto. Ma che cambierà il modo in cui pensi, chiedi, parli.
Ha lavorato con Airbnb, Ferrari, e adesso — con OpenAI — punta a progettare il prossimo oggetto universale. Quello che non solo usi, ma che sei.
Negli ultimi anni, OpenAI ha fatto ciò che nessuno pensava possibile: ha reso l’intelligenza artificiale accessibile, usabile, persino simpatica. Con ChatGPT ha colonizzato browser, app, sistemi operativi. Ha insegnato a milioni di persone a scrivere meglio, a parlare con un algoritmo, a generare arte, curriculum, emozioni sintetiche.
Ma tutto questo — pur potentissimo — non aveva ancora un corpo.
Era ovunque e in nessun luogo. Viveva tra nuvole e datacenter, senza un’icona riconoscibile, senza un oggetto capace di canalizzare desiderio, status, affezione. E quando una tecnologia non ha una forma, non ha nemmeno una bandiera. È un servizio. È un’opzione. È, paradossalmente, intercambiabile.
Ecco perché “io” non è solo un’azienda: è l’operazione identitaria che mancava a OpenAI.
Così come Apple ha trasformato il calcolo in moda, e Tesla ha trasformato la batteria in culto, OpenAI adesso punta a trasformare l’AI in un’esperienza personale e pervasiva.
Si tratta di creare qualcosa che non sia più “uno strumento” ma un’estensione del sé. Non un’interfaccia, ma un interlocutore. Non un’app, ma un oggetto di affezione. Un compagno, un avatar, una presenza continua. Qualcosa che ti ascolta mentre parli e ti parla prima che tu lo faccia.
Il punto non è vendere un nuovo device — il punto è riprogrammare l’intimità.
Ogni volta che nella storia una tecnologia è diventata personale — il telefono, il walkman, lo smartphone — ha riscritto il comportamento umano. Ora tocca all’intelligenza artificiale. E OpenAI, con l’aiuto di Ive, vuole scriverla bene. Vuole scriverla bella.
L’economia della pervasione
Ogni rivoluzione ha bisogno di un gesto. Il touchscreen, lo swipe, l’emoji. Sono azioni minime, ma dietro c’è un’intera cultura che cambia. OpenAI lo sa: l’AI del futuro non potrà più essere solo una funzione da attivare su schermo. Dovrà essere un’abitudine naturale, quasi invisibile, integrata nei nostri movimenti, nei nostri silenzi, nei nostri sguardi.
Non la interrogheremo più: ci risponderà prima.
Perché in fondo è sempre andata così: la tecnologia parte come utopia, diventa strumento, poi gesto, poi ambiente. Internet è nato per diffondere conoscenza universale, ed è finito a distribuire clip di gente che balla in accappatoio sullo yacht. Ma non per questo è un fallimento: è solo l’adattamento alla scala umana.
E oggi l’AI si sta preparando allo stesso percorso.
Per reggere l’impatto, serve una nuova grammatica. Serve un’estetica. Serve un contenitore che renda l’AI qualcosa da mostrare, da riconoscere, da desiderare. In questo senso, la nascita di un oggetto firmato OpenAI+Ive non è solo un prodotto: è un punto di svolta. È un modo per dire: questo è il nuovo status. Questo è il nuovo gesto.
Non sarà per tutti. Come non lo furono i primi Mac, i primi iPhone, i primi follower su Instagram. Ma la massa — dopo anni di educazione alla creazione, al ritocco, al prompt — è pronta per farsi attraversare.
Non più utenti. Non più spettatori. Ma corpi connessi.
E quando quell’oggetto arriverà — piccolo, curvo, morbido, silenzioso — non ci sembrerà strano.
Ci sembrerà ovvio.
Perché alla fine, come scrivono Sam & Jony, “computers are now seeing, thinking and understanding”.
E il passo successivo non è la tecnica. È l’empatia progettata.
A darne notizia è direttamente OpenAI, con un video e un comunicato congiunto firmato da Sam & Jony, disponibile qui: openai.com/sam-and-jony