Cala il mercato del libro, ma non l’affluenza ai padiglioni; si conclude oggi l’affollatissimo Salone del Libro di Torino. Sembra un paradosso, ma è proprio questo lo specchio dell’editoria italiana nel 2025: i numeri del mercato vanno giù, mentre le folle vanno in fiera. Nei primi quattro mesi dell’anno, le vendite di varia sono scese del 3,6%, con quasi un milione di libri acquistati in meno. Ma al Salone Internazionale del Libro di Torino, appena concluso, l’entusiasmo era alle stelle. Lunghe code, padiglioni gremiti, firmacopie sold-out. Un rito collettivo, forse più di presenza che di lettura.
Il tema di quest’anno — Le parole tra noi leggere — ha provato a dare un’anima al tutto, pescando da Montale l’idea che il linguaggio sia ancora un ponte. Ma fuori dalle metafore, l’industria arranca: calano le vendite online, soffre la grande distribuzione, restano in piedi le librerie fisiche, con le indipendenti sempre più rare (ne sono scomparse mille in dieci anni). I piccoli editori, come sempre, incassano i colpi peggiori. E se anche i bestseller vendono meno, il segnale è forte: non è solo crisi di contenuti, è una crisi di abitudini.
Il pubblico giovane, tuttavia, c’è. La Generazione Z si fa vedere, affolla gli eventi, cerca Zerocalcare e Erin Doom. C’è vita sotto la cenere, ma è una vita che si muove per affezione ai personaggi, più che per amore della lettura. La ritualità dell’evento sembra resistere meglio della sostanza.
In questo scenario, spicca un segnale positivo: la consegna del Premio Strega Europeo a Paul Murray, per Il giorno dell’ape. Un romanzo profondo, pubblicato da Einaudi, che ha saputo farsi strada in un panorama affollato e difficile. Premiato anche il traduttore, Tommaso Pincio — un riconoscimento alla traduzione come atto culturale, come costruzione di ponti reali tra mondi linguistici. Gli altri finalisti, da Mircea Cărtărescu a Terézia Mora, compongono una geografia letteraria densa e raffinata, che forse dice più della vitalità editoriale europea che non le cifre di vendita.
Perché è qui il nodo. L’editoria italiana sembra non sapere più se essere industria o atto culturale. Si contano le copie, si rincorrono gli algoritmi, si viralizzano i titoli. Ma poi ci si accalca nei saloni, si ascoltano autori parlare, si cercano le firme, si condividono foto tra gli scaffali. È un’editoria che vive in bilico: tra performance e sostanza, tra presenza fisica e vendite in calo, tra nostalgia del libro e bulimia digitale.
E forse è proprio questa la contraddizione che dovrebbe interrogarci. Non perché non ci sia più chi legge. Ma perché stiamo tutti leggendo altro. E altrove.