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Genova, preside aggredita da un genitore. Non è un caso isolato: è la (a)normalità che avanza

A Genova, una preside finisce al pronto soccorso dopo l’aggressione di un genitore. Voleva un confronto, ha ricevuto insulti, spintoni e una prognosi. Non è un caso isolato: è la normalità che avanza. È il termometro di una società che ha rovesciato i ruoli, in cui l’autorità educativa è diventata un bersaglio — e il genitore, un cliente insoddisfatto pronto a fare causa. O a usare le mani.

Il problema non è la scuola. Il problema siamo noi. Genitori che non fanno più i genitori, ma i sindacalisti dei figli. Che non ascoltano, non si informano, non rispettano. Che vedono nell’insegnante un ostacolo, mai un alleato. Che si precipitano a contestare un voto come fosse una sentenza, a denunciare una nota come se fosse un’aggressione.

Una volta, tornando a casa con una nota sul diario, ti arrivava una doppia punizione. Morale, e a volte pure fisica. E no, non era violenza: era educazione condivisa. C’era un patto tra scuola e famiglia. Oggi quel patto è saltato. E al suo posto c’è solo diffidenza, presunzione, arroganza.

Viviamo in un’epoca in cui il concetto stesso di autorità è sotto attacco. Ma non da una rivoluzione culturale — da un infantilismo di ritorno. Un’epoca dove l’adulto si scusa per essere adulto, e l’adolescente detta le condizioni. Dove tutto è negoziabile, anche l’autorevolezza. Anche l’educazione.

Lo dicevano già Fromm e Bauman: la crisi della società moderna non è solo economica o politica, è relazionale. È la perdita di riferimenti solidi. È l’evaporazione delle strutture che tenevano insieme la crescita. Famiglia, scuola, comunità. Oggi sono diventati contenitori svuotati, in competizione tra loro per chi “piace” di più. I genitori vogliono essere amati, non rispettati. Gli insegnanti temono di essere denunciati. E i figli? I figli crescono soli, iperstimolati e sotto-orientati. Protetti da tutto, educati a niente.

Il risultato è sociologicamente devastante: una generazione affettivamente insicura, cognitivamente discontinua, emotivamente fragile. Una generazione che non sa tollerare la frustrazione, che interpreta ogni no come un affronto, ogni critica come una lesione della propria identità.

La scuola, in questo scenario, non è più la palestra della vita. È diventata l’arena di una disputa quotidiana tra genitori e professori. E quando l’educazione si trasforma in guerra, il sapere diventa un danno collaterale. L’autorità si svuota, la disciplina scompare, la cultura scolastica si riduce a sopravvivenza.

Ora. Questa riflessione non vuole buttare a mare l’intera classe genitoriale. Né tantomeno criminalizzare la scuola. È una provocazione, sì, ma necessaria. Un invito a fermarsi, a guardarsi allo specchio, a fare autocritica. In primis, chi vi scrive.

Forse dovremmo tutti — padri, madri, fratelli maggiori e anche ex studenti nostalgici — imparare a fare un passo indietro. Lasciare che i figli vivano la loro vita, facciano i loro errori, che non sono i nostri. Il nostro compito non è risolvere tutto. È esserci. Senza pugni. Senza urla. Con la presenza silenziosa di chi sostiene, non di chi invade.

Perché se a ogni rimprovero parte una denuncia, a ogni errore una rissa, e a ogni nota una spedizione punitiva, allora la scuola non è più un’istituzione: è un ring. E chi ci rimette, alla fine, non è solo la preside aggredita. Ma il futuro.

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