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Gruppo di israeliani allontanati da un ristorante a Napoli: un errore che alimenta l’odio

C’è un confine sottile tra la presa di posizione e l’intolleranza. Un confine che, a volte, viene superato senza accorgersene, nella convinzione — forse sincera — di agire per una causa giusta. È quanto accaduto in un ristorante del centro storico di Napoli, dove un gruppo di avventori israeliani in vacanza sono stati allontanati perché non graditi. Pare che durante il pasto il gruppo in questione abbiano iniziato a discutere animatamente con un altro tavolo sulla questione israelo-palestinese. A quel punto la proprietaria è intervenuta, ma la situazione è rapidamente degenerata, fino all’allontanamento della famiglia israeliana dal ristorante “Taverna Santa Chiara”.

La proprietaria ha spiegato che il suo locale aderisce alla campagna “Spazi liberi dall’apartheid israeliana”, e ha dichiarato che “i sionisti non sono benvenuti”. Ma chi sono i sionisti? La parola — spesso travisata — nasce come espressione del desiderio, diffuso tra molti ebrei a partire dall’Ottocento, di costruire uno Stato nazionale in risposta alle persecuzioni subite in Europa. Col tempo, ha assunto diverse sfumature: per alcuni, è sinonimo di patriottismo ebraico; per altri, è identificato con le politiche dello Stato di Israele. È una parola densa, storica, controversa.

Ma anche ammettendo il diritto di rifiutare simbolicamente ciò che si considera oppressione, resta una domanda scomoda: può un gesto pensato come atto politico trasformarsi in esclusione di persone reali, concrete, in carne e ossa? E soprattutto: può avvenire nel nome di una causa che vorrebbe difendere i diritti?

Cacciare due turisti perché israeliani — senza sapere nulla di loro, delle loro idee, della loro storia — significa abbandonare il terreno della critica e calpestare quello dell’uniformazione. Si finisce per fare esattamente ciò che si condanna: giudicare un popolo intero in base all’azione di un governo.

È comprensibile che il conflitto in Medio Oriente susciti emozioni forti. Ed è doveroso riconoscere l’orrore che sta accadendo a Gaza. Nessuno qui vuole negare la violenza sistematica, né il dolore inaccettabile inflitto a civili innocenti. Ed è altrettanto giusto condannare le azioni del governo Netanyahu, che hanno superato ogni misura di proporzionalità e umanità. Ma proprio per questo, il luogo del dibattito non può essere un ristorante. Un ristorante non è un’istituzione politica. Non è un’aula parlamentare, non è un tribunale internazionale. È — o dovrebbe essere — uno spazio neutro, in cui si incontrano culture, si scambiano parole, si condivide cibo. È rappresentanza della cucina italiana, non della geopolitica mondiale.

Napoli, città che ha sempre accolto culture, lingue, accenti diversi, dovrebbe restare un simbolo di dialogo. Non serve una guerra in più: serve un gesto in meno. Un gesto di esclusione, d’impulso, che — forse in buona fede — finisce per somigliare troppo a ciò che si dice di voler combattere.

E a chi oggi eleva questo gesto a forma di resistenza, a chi applaude come se fosse un atto eroico, va ricordato che ogni applauso in questi casi è una miccia. Sostenere simili derive con leggerezza, senza valutarne le conseguenze, significa assumersi la responsabilità morale di alimentare lo stesso odio che si accusa negli altri. E in tempi come questi, un’idea accesa senza criterio può bruciare molto più della verità che si vorrebbe difendere.

Oggi la proprietaria del ristorante si dice stupita della shitstorm ricevuta, delle minacce, dell’odio esploso online. E anche se riteniamo profondamente sbagliato il gesto, non possiamo che esprimere solidarietà personale verso chi oggi subisce una tempesta mediatica spesso violenta, sproporzionata, disumanizzante. Ma davvero non poteva immaginarlo? Quando si sceglie consapevolmente di trasformare un luogo di accoglienza in un presidio ideologico, si rinuncia a quella neutralità che protegge dal clamore. Non si può attivare una miccia e meravigliarsi se scoppia il fuoco. La condanna morale di un comportamento non deve mai diventare linciaggio: si può dissentire con forza senza disumanizzare chi sbaglia. Allo stesso modo, è altrettanto becero registrare tutto — come ha fatto una delle persone coinvolte — e riversarlo sui social, anche questo è un riflesso di un tempo tossico, dove la realtà viene piegata allo storytelling e ogni episodio diventa contenuto. Abitudini simili, se non sanzionate formalmente, andrebbero almeno rimesse in discussione culturalmente.

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